La questione sottoposta al vaglio dei Giudici di legittimità era nata in seguito al ricorso, proposto da un lavoratore, a fronte del licenziamento per giusta causa intimatogli dal proprio datore di lavoro.
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello, tuttavia, rigettavano le istanze attoree. Secondo i Giudici di secondo grado, in particolare, doveva essere considerata legittima l’attività investigativa svolta dal datore di lavoro, dalla quale era emerso che il dipendente, il quale aveva lamentato di essersi procurato un trauma ed una lesione lacero contusa nell’allontanarsi, a bordo del proprio scooter, dal luogo di lavoro, si era, in realtà, dedicato ad attività fisiche, pedalando per ore e camminando per il centro cittadino.
Avverso tale decisione il lavoratore ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione eccependo, innanzitutto, la violazione dell’art. 5 dello st. lav., dell’art. 69 D.L. n. 150/2009 e dell’art. 25 D.L. n. 151/2015, in ordine alle esenzioni dalla reperibilità per i lavoratori subordinati e alla connessa illegittimità dei controlli investigativi effettuati.
Il ricorrente lamentava, poi, come la sanzione del licenziamento risultasse essere sproporzionata rispetto al suo comportamento.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Con riferimento, innanzitutto, alla legittimità dei controlli investigativi, gli Ermellini hanno evidenziato come, trattandosi, in realtà, nel caso de quo, di un controllo datoriale di verifica e controllo di un comportamento extralavorativo illecito, e non, invece, di un controllo circa l’esecuzione della prestazione lavorativa, sia più corretto qualificarlo ai sensi degli artt. 2, 3 e 4 dello Statuto dei Lavoratori, l. n. 300/1970, in relazione a cui la costante giurisprudenza di legittimità sostiene che è “legittimo servirsi delle agenzie investigative per verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni in capo al dipendente con riguardo a comportamenti tenuti al di fuori dell’ambito lavorativo disciplinarmente rilevanti” (cfr. ex multis Cass. Lav., n. 12810/2017).
Sulla base di quanto già in precedenza disposto dalla stessa Cassazione, dunque, in casi come quello di specie, in cui il datore di lavoro abbia motivo di pensare che il mancato svolgimento dell’attività lavorativa sia riconducibile alla perpetrazione di un illecito, anche il solo sospetto in tal senso giustifica l’espletamento di un controllo attraverso il ricorso ad un investigatore privato, non rilevando, peraltro, il fatto che non si tratti di un’assenza per malattia, bensì di un infortunio sul lavoro, in relazione a cui non è richiesta la reperibilità e non è esperibile una visita fiscale.
Quanto, poi, all’asserita sproporzione tra la condotta del lavoratore e la sanzione del licenziamento, il costante orientamento della Suprema Corte dispone che “in tema di licenziamento per giusta causa, l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e proporzione della sanzione espulsiva adottata sono demandati all’apprezzamento del giudice di merito, che - anche qualora riscontri l’astratta corrispondenza dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente - è tenuto a valutare la legittimità e congruità della sanzione inflitta, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda, con giudizio che, sorretto da adeguata e logica motivazione, è incensurabile in sede di legittimità” (Cass. Lav., n. 26010/2018).
Orbene, nel caso di specie, oltre al fatto che le circostanze oggetto di contestazione sono state confermate anche dalle dichiarazioni rese da testimoni, la Corte territoriale ha adeguatamente esaminato la contrarietà della condotta del lavoratore ai più elementari obblighi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto di lavoro, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1175 e 1375 c.c.