La questione sottoposta al vaglio degli Ermellini era nata in seguito al furto realizzato da un uomo all’interno di una sagrestia, dalla quale aveva rubato un borsellino contenente un bancomat, poi utilizzato per prelevare 1000 euro e per effettuare dei pagamenti.
In seguito all’accaduto, l’uomo, all’esito di entrambi i gradi del giudizio di merito, era stato condannato per i reati di furto in abitazione, ex art. 624 bis del c.p., e di utilizzo indebito di carta di credito, ai sensi dell’art. 55, comma 9, d.lgs. n. 231/2007.
Di fronte alla propria condanna, l’imputato, a mezzo del proprio difensore, ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione, eccependo, in primo luogo una violazione ed un vizio motivazionale in relazione all’art. 624 bis del c.p., contestando la sussistenza di elementi probatori a suo carico. Lo stesso, poi, in merito alla qualificazione giuridica del reato contestatogli, rilevava come la sagrestia non potesse essere considerata un luogo di privata dimora, svolgendovisi esclusivamente attività connesse alle funzioni religiose cui la chiesa è preposta.
Il ricorrente evidenziava, inoltre, come, in relazione all’elemento soggettivo del reato, avrebbe dovuto essere preso in considerazione il fatto che una consulenza tecnica d’ufficio, resa nell’ambito del procedimento previdenziale per il riconoscimento, in suo favore, dell’indennità di accompagnamento, avesse accertato un suo ritardo mentale, indice di un’età intorno ai sei od otto anni.
Si contestava, poi, la sussistenza del reato di utilizzo indebito di carta di credito, nonché la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, ex art. 62 bis del c.p., nonostante il quadro clinico dell’imputato e la sua incensuratezza.
La Suprema Corte ha, tuttavia, dichiarato il ricorso inammissibile per genericità e manifesta infondatezza dei motivi proposti.
Gli Ermellini hanno, difatti, preliminarmente ribadito come, sulla base del costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, “i motivi di ricorso per Cassazione possono riprodurre totalmente o parzialmente quelli di appello ma solo entro i limiti in cui ciò serva a documentare il vizio enunciato e dedotto, con autonoma, specifica ed esaustiva argomentazione” (Cass. Pen., n. 34521/2013).
La funzione tipica dell’impugnazione è, appunto, quella della critica argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce, che si realizza attraverso la presentazione di motivi i quali, a pena di inammissibilità, devono indicare specificatamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Contenuto essenziale dell'atto di impugnazione è, pertanto, necessariamente il confronto puntuale con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta.
Il motivo di ricorso in Cassazione deve, poi, sia contestare puntualmente le ragioni che sorreggono la decisione impugnata, sia enucleare in modo specifico il vizio denunciato, deducendo anche i motivi della sua decisività rispetto al percorso logico seguito dal giudice del merito per giungere alla deliberazione impugnata, così da condurre ad una decisione diversa (cfr. Cass. Pen., n. 8700/2013).
Nel caso di specie, invece, il ricorrente si è limitato a riproporre in maniera pedissequa i motivi già proposti in appello, senza fornire, quindi, una censura argomentata in relazione alla pronuncia impugnata.
Oltre a ciò, i motivi di ricorso proposti dall’imputato si fondano, secondo gli Ermellini, su considerazioni puramente di merito, le quali non sono analizzabili in sede di giudizio di legittimità.
Poste tali premesse, i giudici di legittimità hanno ribadito come, sulla base del loro costante orientamento, avallato anche dalle Sezioni Unite, l’interpretazione letterale dell’art. 624 bis del c.p. debba essere definita sulla base di alcuni specifici elementi quali: l’utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato e al riparo da intrusioni esterne; la durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; la non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare (Cass. Pen., SS.UU., n. 31345/2017).
Alla luce di tali principi di diritto appare chiaro, dunque, che la Corte territoriale abbia correttamente ritenuto che il furto realizzato all’interno della sagrestia fosse qualificabile come furto in abitazione, ai sensi dell’art. 624 bis del c.p.
La Cassazione ha, infatti, più volte evidenziato che “la sagrestia è un luogo funzionale allo svolgimento di attività complementari a quelle di culto e di attività ben più riservate rispetto a quelle che si svolgono nella chiesa, tra cui la vestizione dei celebranti, la preparazione delle attività liturgiche, l'attività di ricevimento riservato di determinati fedeli da parte del parroco, l'espletamento di attività di gestione della parrocchia caratterizzate da profili di riservatezza. Va inoltre osservato che il rapporto tra la sagrestia e il parroco è connotato da stabilità, trattandosi di locale servente non solo rispetto all'edificio sacro ma anche alla stessa casa canonica e che, dunque, deve ritenersi luogo destinato, in tutto o in parte, a privata dimora, essendo l'ingresso di terze persone selezionato ad iniziativa di colui che ne ha la disponibilità” (Cass. Pen., n. 40245/2008).
La motivazione della sentenza impugnata è parsa immune da vizi logici anche nel punto in cui ha ravvisato la sussistenza, in capo all’imputato, dell'elemento soggettivo dei reati contestati, evidenziando che dalla perizia svolta in primo grado è emerso che egli è affetto solo da un ritardo mentale di grado moderato, escludendo la sussistenza di un quadro psicotico, e che il predetto gode di autonomia di pensiero e di azione, di un'adeguata percezione della realtà esterna, nonché di capacità critica e di valutazione delle conseguenze dei suoi atti.
Alla luce di tali elementi, dunque, la Cassazione non ha potuto che dimostrarsi concorde con i giudici di merito nel ritenere il ricorrente perfettamente consapevole delle condotte da lui poste in essere.
Quanto, poi, alla mancata concessione delle attenuanti generiche, gli Ermellini hanno osservato come la relativa censura attenga a valutazioni puramente discrezionali, attribuite in via esclusiva al giudice di merito e, dunque, sottratte al sindacato di legittimità.