Con la sentenza n. 34742 del 10 novembre 2020 la corte di cassazione si è pronunciata sull’entità dell’accertamento peritale in un giudizio di responsabilità medica, stabilendo che esso non rappresenta uno strumento indispensabile e che, dunque, la sua mancata effettuazione non comporta ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 606 del c.p.p., comma 1, lettera d).
La questione traeva origine dalla decisione della Corte di appello di Bologna, che confermava la condanna di una dottoressa in ordine al delitto di lesioni personali colpose (art. 590 del c.p.), poiché la stessa, nel sottoporre una paziente ad intervento chirurgico di sostituzione del generatore del pacemaker, avendo dimenticato di rimuovere dalla tasca sottocutanea una garza, le cagionava lesioni personali gravi, consistenti nell'insorgere di un processo infiammatorio ed infettivo cui conseguiva un successivo necessario intervento chirurgico di rimozione del dispositivo. La vicenda approdava così in Cassazione, davanti alla quale il difensore dell’imputata sollevava i seguenti motivi:
- innanzitutto, eccepiva la violazione di legge, nonché il vizio di motivazione in relazione alla causa di estinzione del reato di cui all'art. 162 ter del c.p., deducendo che, contrariamente a quanto affermato nella pronuncia impugnata, l'imputata aveva risarcito il danno cagionato alla persona offesa tempestivamente ed integralmente;
- in secondo luogo, lamentava il mancato svolgimento di una prova decisiva costituita da una perizia sulla causa delle lesioni patite dalla persona offesa e sulla loro entità; più precisamente, si deduceva che sulla causa delle lesioni le argomentazioni effettuate dai giudici di merito fossero censurabili, poiché improntate al criterio secondo cui "post hoc - propter hoc". Per il difensore dell’imputata, la mancata assunzione di una perizia, quale prova decisiva che avrebbe definitivamente chiarito le cause di insorgenza dell'infezione, altro non era che la conseguenza di argomentazioni illogiche e apodittiche.
Il Tribunale Supremo, riteneva entrambi i motivi di ricorso manifestamente infondati. In modo particolare, gli Ermellini, soffermandosi sul secondo motivo di ricorso, stabilivano che “la perizia non può mai essere considerata una prova decisiva”, in quanto trattasi “di un mezzo di prova "neutro", sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l'articolo citato, attraverso il richiamo all'art. 495 del c.p.p., comma 2, si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività”.
Inoltre, la Suprema Corte precisava che le argomentazioni della Corte d’Appello in punto di nesso causale fossero del tutto logiche e coerenti con il materiale probatorio, in quanto si erano basate non solo sugli accertamenti dei consulenti tecnici del pubblico ministero e di parte civile, ma anche su ulteriori elementi indiziari indicati nella sentenza impugnata. Dunque, quello in questione non è altro che “un percorso motivazionale congruo e non manifestamente illogico, che, nel pieno rispetto dei principi in materia di accertamento del nesso causale delineati dalle note sentenze Franzese (Sez. Un., n. 30328 del 10/07/2002) e Espenhahn (Sez. Un., n. 38343 del 24/04/2014), ha svolto correttamente il richiesto giudizio di alta probabilità logica, fondandolo sia su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, sia su una valutazione di tipo induttivo elaborata attraverso le caratteristiche e particolarità del caso concreto”.
È in virtù dei suddetti principi che i Giudici di legittimità dichiaravano il ricorso inammissibile.