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Articolo 41 Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni

(D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81)

[Aggiornato al 15/11/2024]

Definizione

Dispositivo dell'art. 41 Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni

1. L'apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e alla occupazione dei giovani.

2. Il contratto di apprendistato si articola nelle seguenti tipologie:

  1. a) apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore;
  2. b) apprendistato professionalizzante;
  3. c) apprendistato di alta formazione e ricerca.

3. L'apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore e quello di alta formazione e ricerca integrano organicamente, in un sistema duale, formazione e lavoro, con riferimento ai titoli di istruzione e formazione e alle qualificazioni professionali contenuti nel Repertorio nazionale di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13, nell'ambito del Quadro europeo delle qualificazioni.

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Remo V. chiede
mercoledģ 21/10/2020 - Abruzzo
“Uno stabilimento balneare, operativo 9/10 mesi l’anno soprattutto con l’attività di ristorazione, è membro di una associazione sindacale la quale non è firmataria di alcun ccnl. Si specifica che questa impresa non è interessata a decontribuzioni o altre sovvenzioni statali in tema di lavoro.

Considerando che la contrattazione collettiva non ha efficacia erga omnes ma è vincolante unicamente quando il datore di lavoro sia membro di un’associazione datoriale firmataria di ccnl, questo stabilimento balneare vorrebbe assumere i suoi dipendenti, tutti a termine per ovvi motivi di stagionalità, con un contratto individuale da operaio avente una retribuzione personalizzata in base alle reali capacità dei lavoratori; alcuni avrebbero una retribuzione lorda giornaliera/oraria inferiore ai minimi sindacali ma comunque rispettosa dell’art. 36 della costituzione.

Si chiede di dirimere i seguenti quesiti:

1) L’orario normale di lavoro, ai sensi dell’art. 3 del DL 66/2003, è di 40 ore settimanali e, secondo l’art. 4 di tale DL, le ore massime lavorabili in una settimana sono 48. L’art. 16 lettera p) invece prevede esplicitamente una deroga per gli stabilimenti balneari. Si chiede quindi se lo stabilimento balneare possa redigere contratti da 11/12 ore per 6 giorni settimanali.
Estremizzando, si ipotizzi un contratto da 13 ore giornaliere per 6 giorni la settimana (orario settimanale di 78 ore), qualora fosse possibile, si chiede se le ore lavorate oltre l’orario normale di lavoro di 40 ore settimanali siano da considerarsi ore di straordinario da retribuire con la maggiorazione prevista dalla legge (anche se contrattualizzate) o se, invece, vadano retribuite unicamente con la paga contrattualmente prevista.

2) L’art. 41 del D.Lgs 81/2015 prevede che il contratto di apprendistato sia a tempo indeterminato; l’art. 42 dello stesso decreto invece postula che la durata minima sia di 6 mesi.
Si chiede di chiarire se lo stabilimento balneare, non aderendo in alcun modo alla contrattazione collettiva, possa: a) stipulare contratti di apprendistato ex art. 44 D.Lgs 81/2015; b) stipulare contratti di apprendistato a termine per motivi di stagionalità con durata minima di 6 mesi; c) stipulare contratti di apprendistato con durata inferiore ai 6 mesi; d) beneficiare della riduzione contributiva standard prevista in caso di apprendistato.

3) In caso di ispezione da parte dell’INL/INPS/NIL come si stabilisce se la retribuzione inferiore ai minimi sindacali sia lesiva dell’art. 36 della costituzione? Ritengo, ma è un argomento in cui sono completamente ignorante, che tale giudizio possa essere dato unicamente da un giudice del lavoro “chiamato in causa” da un dipendente.

Graditi rimandi a normative o circolari specifiche.”
Consulenza legale i 02/11/2020
1) Durata massima dell’orario di lavoro.

L’art. 3 del D. Lgs. 66/2003, rubricato “Orario normale di lavoro”,prevede che “L'orario normale di lavoro e' fissato in 40 ore settimanali. I contratti collettivi di lavoro possono stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore e riferire l'orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno”.

La rubrica dell’art. 4 D. Lgs. 66/2003, invece, si riferisce alla durata massima dell’orario di lavoro. Nell’articolo, peraltro, non viene disciplinata direttamente la durata massima della singola settimana lavorativa, la cui fissazione è invece rinviata ai contratti collettivi (art. 4, co. 1), ma solo la durata complessiva (cioè comprensiva anche delle prestazione straordinarie) media (cioè da rispettare su un certo arco temporale) dell’orario di lavoro settimanale (art. 4, co. 1-4).

Il comma 2 prevede, infatti, che “La durata media dell'orario di lavoro non può in ogni caso superare, per ogni periodo di sette giorni, le quarantotto ore, comprese le ore di lavoro straordinario”.
Il comma 3 del medesimo articolo precisa che “Ai fini della disposizione di cui al comma 2, la durata media dell'orario di lavoro deve essere calcolata con riferimento a un periodo non superiore a quattro mesi”.
Il testo prosegue prevedendo la possibilità per la contrattazione collettiva di elevare il periodo di riferimento.

L’art. 16 del medesimo decreto elenca una lunga serie di ipotesi (attività e prestazioni), tra cui alla lettera p) gli stabilimenti balneari, che sono escluse dall’applicazione del limite settimanale normale (40 ore) e, per conseguenza, non sono soggette alla disciplina dello straordinario, la quale, evidentemente, è costruita sulla sussistenza di un limite normale (cfr. l’art. 5, d.lgs. n. 66 e, soprattutto, l’art. 1, co. 2, lett c, del medesimo decreto, ove si definisce il lavoro straordinario come quello “prestato oltre l’orario normale di lavoro così come definito all’articolo 3”).

La deroga opera - come ben chiaro dalla lettera dello stesso art. 16 - solo rispetto alla previsione dell’art. 3 del d.lgs. (con gli effetti appena descritti in merito all’inapplicabilità anche dell’art. 5) e, pertanto, vanno invece rispettati, tutte le altre previsioni in esso contenute, ivi comprese, ad esempio, quelle relative alla durata minima del riposo giornaliero (art. 7), alle pause (art. 8), alla durata settimanale complessiva media (art. 4).

Alla luce di quanto esposto, non sarà possibile per lo stabilimento balneare un orario settimanale di 78 ore, dovendo rispettare in ogni caso il limite di 48 ore settimanali previsto dall’art. 4.

Tuttavia, dal momento che l’art. 4 prevede una durata massima complessiva media da calcolare su un determinato periodo, sarà possibile superare le 48 ore settimanali, anche in modo cospicuo e per un periodo piuttosto prolungato (ad es.: 66 ore complessive per due mesi; circa 30 ore complessive per gli altri due mesi: la media delle 48 è così rispettata nell’arco di 4 mesi).

Gli spazi di flessibilità, evidentemente, aumentano in caso di presenza di contratti collettivi che abbiano elevato da quattro a sei o, ancora, a dodici mesi il periodo entro cui rispettare le 48 ore complessive come media (ad es., 56 ore complessive per due mesi; circa 42 ore complessive per quattro mesi).

Per quanto riguarda lo straordinario, come visto, se lo stabilimento balneare, approfittando della deroga prevista dall’art. 16, comma p), non preveda l’orario di lavoro normale di cui all’art. 3 D. Lgs. 66/2003, ma solo la durata massima complessiva settimanale nei termini di cui sopra, non sarà tenuto ad applicare la disciplina dello straordinario e quindi neppure la maggiorazione retributiva prevista dalla legge.

2) Apprendistato

Il contratto di apprendistato deve essere considerato a tutti gli effetti un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Caratteristica peculiare dell’apprendistato è l’essere un contratto di lavoro a tempo indeterminato bi-fasico: il primo periodo è a causa mista, dove alla prestazione di lavoro retribuita si aggiunge la formazione con carattere specializzante, mentre la seconda fase, condizionata al mancato recesso da parte del datore di lavoro, rientra nell’ordinaria casistica del rapporto di lavoro subordinato.

Non va confusa la “natura duale” del contratto di apprendistato con un termine di scadenza che l’assimilerebbe ad un contratto a tempo determinato. Il recesso dell’apprendistato è ammesso soltanto alla scadenza del periodo di formazione e previo preavviso.

Il recesso del contratto di apprendistato decorre dal periodo in cui termina il periodo di formazione, ovvero:
  • per l’apprendistato di I e di III livello coincide con il conseguimento del titolo di studio;
  • per l’apprendistato professionalizzante è determinato dal raggiungimento delle competenze proprie della qualifica professionale indicata nel contratto d’assunzione (sulla base del CCNL di riferimento).
Il recesso anticipato, ovvero il licenziamento disciplinare illegittimo, comporta l’applicazione a carico del datore di lavoro delle sanzioni previste in caso di licenziamento illegittimo di lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato.

Detto questo, l’art. 42 del D. Lgs. 81/2015 prevede che la durata minima dell’apprendistato (ovvero del periodo formativo) è di 6 mesi.

Da tale limite sono esclusi i rapporti di apprendistato in cicli stagionali.

Infatti, l’art. 44, comma 5, prevede che “Per i datori di lavoro che svolgono la propria attività in cicli stagionali, i contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere specifiche modalità di svolgimento del contratto di apprendistato, anche a tempo determinato”.

La deroga alla disciplina generale della durata minima si concilia con l’esigenza di definire percorsi formativi e lavorativi flessibili ed adattabili, che assumano a riferimento prioritario le caratteristiche e le esigenze delle parti del contratto individuale di lavoro.

Alla contrattazione integrativa è data, quindi, la possibilità di stabilire specifiche modalità di svolgimento della formazione, in coerenza con le cadenze dei periodi lavorativi, anche tenendo conto delle esigenze determinate dalle fluttuazioni stagionali dell'attività.

Per gli apprendisti stagionali, il percorso formativo si realizza per sommatoria, cumulando le differenti prestazioni rese di stagione in stagione. A tal proposito la contrattazione collettiva può stabilire una durata massima entro la quale si deve concludere l’apprendistato in cicli stagionali. Per esempio, le parti sociali del turismo hanno stabilito che nell’ipotesi di apprendistato in cicli stagionali, a tempo determinato, l’ultima stagione dovrà avere inizio entro quarantotto mesi consecutivi di calendario dalla data di prima assunzione. Il limite massimo sopra individuato è identico per tutte le qualifiche, senza alcuna distinzione in relazione alla durata massima contrattualmente prevista per ciascuna di esse.
Pertanto, è consentito articolare lo svolgimento dell’apprendistato in più stagioni, nell’ambito di una distribuzione dei diversi periodi di lavoro a tempo determinato comunque ricompreso in un periodo di quarantotto mesi consecutivi di calendario dalla data di prima assunzione.

Il fine della norma è quello di impedire che, a causa della breve durata delle stagioni turistiche, che in alcuni casi si limitano a pochi mesi ogni anno, si configuri una sorta di “apprendistato a vita”, risultante dalla sommatoria dei tanti periodi di lavoro stagionale che sarebbero necessari per completare il percorso di apprendistato. Pertanto, allo scadere del quarantottesimo mese, ovvero al temine dell’ultima stagione iniziata entro quarantotto mesi consecutivi di calendario dalla data di prima assunzione, il rapporto di apprendistato si deve comunque concludere, anche se la sommatoria dei diversi rapporti di lavoro stagionale non ha raggiunto la durata contrattualmente prevista per quel livello di inquadramento.

In relazione alla possibilità di concludere contratti di apprendistato professionalizzante stagionali nei casi in cui l’azienda non applichi un CCNL, si richiama l’interpello n. 4/2013 del Ministero del lavoro, che sulla questione – seppure con riferimento alla normativa precedente, D. Lgs. n. 167/2011 – si è espresso in tal senso: “…al fine di non ostacolare il ricorso all’istituto, in assenza di un contratto collettivo proprio del settore di appartenenza o nel caso in cui il datore di lavoro applichi un contratto collettivo che non abbia disciplinato l’apprendistato, si ritiene possibile che lo stesso datore di lavoro possa far riferimento ad una regolamentazione contrattuale di settore affine per individuare sia i profili normativi che economici dell’istituto. Tale orientamento è peraltro in linea con la scelta del Legislatore di favorire l’apprendistato quale principale strumento per lo sviluppo professionale del lavoratore, individuando tale istituto come la “modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro” (così art. 1, comma 1 lett. b, Legge n. 92/2012).

Nella Circolare n. 3/2018 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro vi è inoltre una riflessione di grande rilevanza per la questione oggetto del presente parere.
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro richiama la facoltà rimessa esclusivamente alla contrattazione collettiva di “integrare” la disciplina normativa di numerosi istituti.
A tal proposito l’INL ricorda, anzitutto, che l’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015 stabilisce che “salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”. Pertanto, “ogniqualvolta, all’interno del medesimo Decreto, si rimette alla “contrattazione collettiva” il compito di integrare la disciplina delle tipologie contrattuali, gli interventi di contratti privi del requisito della maggiore rappresentatività in termini comparativi non hanno alcuna efficacia. Ciò può avvenire, a titolo meramente esemplificativo, in relazione al contratto di lavoro intermittente, al contratto a tempo determinato o a quello di apprendistato. Ne consegue che, laddove il datore di lavoro abbia applicato una disciplina dettata da un contratto collettivo che non è quello stipulato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, gli effetti derogatori o di integrazione della disciplina normativa non possono trovare applicazione. Ciò potrà comportare la mancata applicazione degli istituti di flessibilità previsti dal D. Lgs. n. 81/2015 e, a seconda delle ipotesi, anche la “trasformazione” del rapporto di lavoro in quella che, ai sensi dello stesso Decreto, costituisce “la forma comune di rapporto di lavoro”, ossia il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.

Ne deriva che, pur non applicando il CCNL di categoria, il datore di lavoro dovrà comunque rispettare la disciplina prevista dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative per quanto riguarda l’apprendistato, pena la disapplicazione degli istituti di flessibilità di cui al D. Lgs. 81/2015 e, eventualmente, la trasformazione del rapporto di lavoro in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Per quanto riguarda la possibilità di beneficiare della riduzione contributiva prevista per l’apprendistato, nonostante la mancata applicazione di un contratto collettivo nazionale, precisato che non vi è un’esplicita disposizione normativa in tal senso, alla luce della recente giurisprudenza si può dare una risposta affermativa.
Infatti, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6428 del 15 marzo 2018 ha analizzato il ricorso presentato da una ditta di Bari, dopo la sentenza di rigetto della Corte territoriale all’opposizione ad una cartella esattoriale Inps, relativa a crediti contributivi derivanti dalla omessa corresponsione a due apprendiste di retribuzioni previste dal Ccnl di categoria.
Nello specifico, il mancato adempimento di alcuni obblighi retributivi previsti dal Ccnl di settore, da parte di un datore di lavoro, secondo l’Inps poteva essere sanzionato con la richiesta allo stesso datore di lavoro della restituzione dei contributi previdenziali risparmiati per l’assunzione delle due apprendiste.

Per l’Inps, infatti, l’obbligo di restituire i contributi risparmiati è frutto dell’articolo 10 della Legge n. 30/2003 (cosiddetta Legge Biagi), che prevede la revoca degli sgravi e degli incentivi contributivi e normativi a carico dei datori di lavoro che non applicano i contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

La Sentenza n. 6428 del 2018 ritiene infondata la pretesa dell’Ente di previdenza nazionale, basando la sua motivazione sulla differenza che sussiste tra gli incentivi economici e normativi, intesi in senso stretto, e le aliquote contributive agevolate applicabili agli apprendisti.

Effettuando un’analisi della particolare disciplina del rapporto contributivo previsto per l’apprendistato, la Suprema Corte ricorda come le aliquote agevolate per l’apprendistato si differenziano dagli ulteriori benefici di natura contributiva, economica, normativa e fiscale che, a prescindere dalla qualifica di apprendista, sono stati di volta in volta introdotti dal Legislatore per incrementare l’occupazione.
La legge Biagi, e nello specifico l’articolo 10, di fatto, si riferisce solo a questi ultimi incentivi, nella parte in cui subordina l’applicazione degli stessi al pagamento di trattamenti retributivi non inferiori a quelli previsti dai Ccnl comparativamente più rappresentativi, e non anche alle aliquote contributive applicabili agli apprendisti, che sono invece da considerare misure di carattere generale che si applicano a categorie omogenee: ossia a tutte le imprese che assumono apprendisti.

Pertanto, secondo la sentenza n. 6428, la corretta interpretazione dell’articolo 10 della Legge n. 30/2003 deve portare a concludere che il mancato rispetto del trattamento economico e normativo previsto dal contratto collettivo di settore, sottoscritto dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, riverbera il proprio effetto su eventuali sgravi contributivi fiscali percepiti, ma non tocca la minore contribuzione previdenziale a carico del datore di lavoro, dovuta in caso di assunzione di apprendisti.

3) Retribuzione inferiore ai minimi sindacali

Pur non applicando nessun contratto collettivo nazionale di lavoro, l’azienda non può decidere liberamente lo stipendio da erogare ai propri dipendenti. In particolare, la retribuzione non deve essere comunque inferiore alla retribuzione minima stabilita dai contratti collettivi nazionali di riferimento del settore in cui opera l’azienda.

Tale principio è stato affermato dalla giurisprudenza alla luce dell’art. 36 Cost. e 2099 c.c.

Nell’art. 36 Cost. viene, infatti, affermato il principio della necessaria proporzionalità della retribuzione rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, sottolineando che, in ogni caso, essa dovrà risultare “sufficiente a garantire al lavoratore e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa”.

La Cassazione è intervenuta più volte sull’argomento e ha sancito l’immediata precettività del citato principio con la conseguenza che esso potrà regolare direttamente i rapporti individuali di lavoro, senza che si debba provvedere all’attuazione della disposizione in parola tramite una fonte di diritto ordinaria. In tal modo i giudici hanno stabilito l’illegittimità (nullità) delle clausole contrattuali individuali nelle quali fossero stati previsti livelli retributivi non proporzionati secondo la definizione del citato art. 36 Cost. Inoltre, sulla scorta dell’art. 2099 c.c., secondo comma (“In mancanza di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice”), la giurisprudenza ha equiparato l’ipotesi in cui le parti non avessero determinato tout court la retribuzione al caso in cui essi l’abbiano stabilita illegittimamente, sostituendo la clausola invalida direttamente con il trattamento retributivo previsto dai vigenti contratti collettivi: la retribuzione “proporzionata” diveniva, dunque, la retribuzione prevista dai suddetti accordi (Cfr. Cass. 6 luglio 1977, n. 3000; Cass. 30 luglio 1980, n. 4896; Cass. 19 dicembre 1981, n. 6739; Cass. 16 luglio 1987, n. 6273).

Un’ulteriore soluzione interpretativa operata dalla giurisprudenza nel senso dell’estensione dell’ambito di efficacia soggettiva del contratto collettivo è stata quella della c.d. adesione (implicita) al contratto.

Si è così ammessa la possibilità di richiamare la disciplina del contratto collettivo nazionale nel singolo rapporto individuale di lavoro non solo attraverso un richiamo esplicito delle parti in tal senso (con il già accennato rinvio, sia esso formale o materiale), ma anche mediante una prolungata, costante ed uniforme osservanza delle sue clausole, o quantomeno di quelle più significative (Cfr. Cass. 9 giugno 1993, n. 6412; cfr. inoltre Cass. 28 giugno 1978, n. 3229 in cui è stabilito che “l’applicazione spontanea, costante ed uniforme di molteplici clausole di un contratto collettivo, da parte dell’imprenditore non iscritto alle associazioni stipulanti, significa implicita adesione al contratto stesso, onde ogni clausola di esso deve applicarsi ai rapporti di lavoro cui l’imprenditore è titolare” e, dunque, per fatti concludenti).
A bene vedere comunque, tanto nel caso di un rinvio espresso, quanto nel caso di un’adesione implicita, il fondamento dell’estensione della disciplina collettiva nazionale rimarrebbe pur sempre la volontà (implicita) delle parti che la giurisprudenza si limiterebbe ad accertare.

Alla luce di quanto esposto, il dipendente potrà fare causa all’azienda per aver ricevuto un salario inferiore a quello stabilito dalla contrattazione collettiva e chiedere, dunque, le differenze retributive, ossia, la differenza tra le somme pagate dall’azienda e quelle che avrebbe avuto diritto a percepire in base al minimo contrattuale previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro di riferimento del settore in cui opera l’azienda.

Inoltre, l’azienda potrebbe avere problemi anche nei confronti dell’Inps. Erogando un salario inferiore al minimo contrattuale, infatti, l’azienda versa anche meno contributi all’Inps in quanto i contributi sono proporzionali alla retribuzione.

Infatti, ai sensi dell’art. 1, comma 1, D. L. 338/1989 “La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”.
Indipendentemente dalla retribuzione materialmente erogata al lavoratore, l’Inps esigerà che i contributi previdenziali vengano calcolati avendo a riferimento il minimo contrattuale stabilito dalla contrattazione collettiva di settore.

Ciò è stato ricordato anche dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro nella circolare n. 3/2018.
In tale documento viene ricordato che l’ordinamento riserva l’applicazione di determinate discipline subordinatamente alla sottoscrizione o applicazione di contratti collettivi dotati del requisito della maggiore rappresentatività in termini comparativi. In particolare, si evidenzia, fra l’altro che “il contratto collettivo sottoscritto dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale rappresenta il parametro ai fini del calcolo della contribuzione dovuta, indipendentemente dal CCNL applicato ai fini retributivi, secondo quanto prevede l’art. 1, comma 1, del D.L. n. 338/1989 unitamente all’art. 2, comma 25, della L. n. 549/1995”.