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Articolo 965 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Disponibilitą del diritto dell'enfiteuta

Dispositivo dell'art. 965 Codice Civile

L'enfiteuta può disporre(1) del proprio diritto, sia per atto tra vivi [968], sia per atto di ultima volontà [587, 2648].

Per l'alienazione del diritto dell'enfiteuta non è dovuta alcuna prestazione al concedente.

Nell'atto costitutivo può essere vietato all'enfiteuta di disporre per atto tra vivi, in tutto o in parte, del proprio diritto, per un tempo non maggiore di venti anni(2).

Nel caso di alienazione compiuta contro tale divieto, l'enfiteuta non è liberato dai suoi obblighi verso il concedente ed è tenuto a questi solidalmente con l'acquirente [957 comma 2](3).

Note

(1) Può, cioè, trasferire il proprio diritto o costituire sullo stesso diritti di minor entità.
(2) La disposizione è applicazione dell'art. 1379 e, in questo caso, è esplicitamente fissato un limite temporale; si reputa, altresì, applicabile il limite, pur non espressamente positivizzato, dell'apprezzabile interesse.
(3) La disposizione prevede la responsabilità solidale del vecchio enfiteuta sino alla fine del rapporto.
Si tratta di una sanzione che può andare di pari passo con l'obbligo di risarcire i danni, qualora se ne riscontri la presenza.

Brocardi

Irrequisito domino
Requisitio domini

Spiegazione dell'art. 965 Codice Civile

Disponibilità del diritto dell'enfiteuta

Come già il codice del 1865 (art. 1562), il nuovo codice ha mantenuto fermo il principio della disponibilità del proprio diritto da parte dell'enfiteuta, sia per atto tra vivi, sia per atto di ultima volontà.

L'enfiteuta, pertanto, può consentire sul fondo enfiteutico l'iscrizione ipotecaria, oppure l'esercizio di una servitù, oppure può vendere ad altri il fondo enfiteutico. Nel caso dell'iscrizione ipotecaria, questa va a colpire il diritto che spetta all'enfiteuta e non quello che compete al proprietario; nel caso dell'esercizio della servitù questo s'intenderà limitato alla durata dell'enfiteusi, perché la servitù può imporsi solo sul diritto che appartiene all'enfiteuta sul fondo, e non su quello del proprietario; infine, nel caso di vendita, questa deve ritenersi limitata ai diritti che gli spettano sul fondo enfiteutico.

E in questo caso di alienazione, cioè del diritto dell'enfiteuta, comunque essa venga effettuata non è dovuta, giusto il disposto del primo capoverso dell'articolo, alcuna prestazione al concedente, poiché il legislatore con ciò ha voluto rimuovere qualsiasi ostacolo alla libera trasmissione dei beni.


Sue limitazioni

Poiché, però, una tale facoltà di disporre anche senza il consenso del concedente poteva rappresentare un ostacolo insormontabile alla costituzione di nuove enfiteusi, il legislatore, innovando rispetto al vecchio codice, ha ammesso la possibilità di derogarvi, riconoscendo al concedente la facoltà di stabilire un limite a tale potere di disposizione. Infatti, nel terzo comma dell'articolo, è stato stabilito che nell'atto costitutivo può essere vietato all'enfiteuta, per un tempo non superiore a vent'anni, di disporre per atto tra vivi, in tutto o in parte, del proprio diritto.

Superato questo limite, la facoltà di disporre del proprio diritto da parte dell'enfiteuta ritorna piena. Se così non fosse, da una parte i beni finirebbero con l'essere vincolati in perpetuo e perderebbero il loro valore di scambio; dall'altra, sarebbe impossibile od ostacolato il passaggio del fondo da enfiteuti meno idonei a enfiteuti più idonei, e l'enfiteuta non potrebbe liberarsi da questo vincolo se non soggiacendo volontariamente alla devoluzione.


Scopo delle limitazioni

Scopo della limitazione, d'altra parte, è soprattutto - se non unicamente - quello di frenare lo spirito di speculazione: si è infatti voluto impedire che l'enfiteuta si desse maggior cura di speculare sull'alienazione del suo diritto che migliorare il fondo. E affinché la limitazione avesse pieno effetto è stato anche sancito che l'infrazione di tale divieto avesse per effetto che l'enfiteuta non venisse liberato dai suoi obblighi verso il concedente ed è sempre tenuto a questi solidalmente con l'acquirente.

Analogamente a quanto era disposto dal codice del 1865, infine, è stata mantenuta l'esclusione di qualsiasi prestazione al concedente per l'alienazione del diritto dell'enfiteuta, costituendo il laudemio un vincolo sulla libera disponibilità del diritto stesso.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

454 E' conservato nell'art. 965 del c.c. (art. 1562 del codice precedente) il principio della disponibilità del proprio diritto da parte dell'enfiteuta, sia per atto tra vivi sia per atto di ultima volontà; ma, innovando al codice anteriore, si consente al concedente di porre un limite a tale potere di disposizione. Il terzo comma dell'articolo stabilisce in proposito che nell'atto costitutivo può essere vietato all'enfiteuta, per un tempo non maggiore di venti anni, di disporre per atto tra vivi, in tutto o in parte, del proprio diritto. La limitazione varrà ad infrangere lo spirito di speculazione; ad impedire che l'enfiteuta si dia maggior cura di speculare sull'alienazione del suo diritto che di migliorare il fondo. L'inosservanza del divieto ha per effetto che l'enfiteuta non è liberato dai suoi obblighi ed è tenuto solidalmente con l'acquirente al risarcimento dei danni. Ho mantenuto (art. 965, secondo comma) l'esclusione di qualsiasi prestazione al concedente per l'alienazione del diritto dell'enfiteuta, costituendo il laudemio un vincolo alla libera disponibilità del diritto medesimo, e ho riprodotto (art. 968 del c.c.) il divieto di costituire subenfiteusi, poiché queste possono far sorgere una serie di speculatori sul fondo, quali quasi sempre ne trascurano il miglioramento.

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Consulenze legali
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Andrea C. chiede
domenica 04/10/2020 - Toscana
“E' possibile per il livellario/enfiteuta usucapire il fondo per avervi realizzato nel tempo una costruzione ed avendo chiesto ed ottenuto per tale costruzione regolare concessione amministrativa?

Consulenza legale i 15/10/2020
Con il quesito posto viene sostanzialmente chiesto di prendere posizione in ordine alla possibilità che un livellario possa usucapire il c.d. dominio diretto per intervenuto mutamento del titolo del suo possesso (interversio possessionis) ed in presenza degli altri presupposti di legge (passare del tempo, possesso continuo ed ininterrotto e così via).
In particolare, il fatto giuridico da cui vorrebbe farsi scaturire l’interversio possessionis sarebbe costituito dalla concessione nell’anno 1957, da parte del Comune competente, di una autorizzazione a costruire per la realizzazione di un fabbricato urbano, da una successiva licenza edilizia del 1969 e dalla ulteriore approvazione di una variante a progetto, per ampliamento di quel medesimo fabbricato, concessa nel corso dell’anno 1971.

Preliminarmente si ritiene opportuno precisare, seppure già noto a chi pone il quesito, che il livello o precario è un istituto giuridico che non ha una propria definizione normativa, risalendo addirittura al 368 d.c. ed avendo avuto una grande diffusione nel Medioevo.
Si trattava sostanzialmente di un contratto agrario, con cui il proprietario del fondo (c.d. concedente o titolare del dominio diretto) concedeva ad altri (c.d. livellario o titolare del dominio utile) il possesso e lo sfruttamento del fondo (normalmente un terreno agricolo, ma anche un immobile urbano), gravando sul livellario l’obbligo del pagamento del canone (il c.d. censo) e/o del miglioramento del fondo.
La concessione poteva essere perpetua o temporanea (per venti anni), rinnovabili con la ricognizione al diciannovesimo anno.

Con il passare del tempo, il livello finì per confondersi e confluire nell’enfiteusi, con conseguente estensione anche ai livelli della generale disciplina dell’enfiteusi; pertanto, non esiste più un autonomo contratto di livello e per la disciplina dei livelli ancora esistenti occorre necessariamente fare applicazione, in maniera diretta e non analogica, delle norme che il codice civile e le varie leggi speciali che si sono succedute nel tempo dettano in tema di enfiteusi.

Di ciò se ne trova conferma anche nei precedenti della Corte di Cassazione (cfr. Cass. N. 1366/1961; Cass. 1682/1963; Cass. N. 64/1997; Cass. 23752/2011 e Cass. N. 9135/2012).
In particolare, nell’ultima delle sentenze citate si afferma che “Il regime giuridico del cosiddetto “livello” va assimilato a quello dell’enfiteusi, in quanto i due istituti, pur se originariamente distinti, finirono in prosieguo per confondersi ed unificarsi, dovendosi, pertanto, ricomprendere anche il primo, al pari della seconda, tra i diritti reali di godimento”.

In Italia è dalla seconda metà del novecento che il contratto di livello risulta dimenticato ed il livellari non pagano più alcun canone, anche perché per privati ed enti ecclesiastici concedenti è divenuto improduttivo e negativo sopportare gli oneri della riscossione, a fronte di un gettito del tutto irrisorio ed inadeguato; di contro, però, capita ancora di imbattersi, come nel caso di specie, in certificazioni catastali, che indicano la presenza di un concedente o direttario e di un enfiteuta o livellario.
Peraltro, mentre i livelli costituiti sui fondi localizzati in Veneto sono stati, per effetto di successivi interventi normativi, convertiti in diritto di credito prescrivibile in due anni ed i rapporti perpetui e personali dichiarati estinti, nulla è stato disposto per i livelli concessi da enti ecclesiastici o soggetti diversi dall’amministrazione statale, con la conseguenza che, qualora il concedente sia un ente ecclesiastico, il livello deve ancora considerarsi sussistente e per liberare i relativi fondi occorrerà, almeno ordinariamente, un atto di affrancazione ad hoc.

Pertanto, ha sicuramente ragione il notaio quando afferma che è possibile per il livellario alienare a terzi il fondo su cui è iscritto il livello, ma, poiché secondo la tesi assolutamente prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, il vincolo derivante dall’imposizione del livello ha natura di obbligazione propter rem, tale vincolo sarà senza dubbio opponibile al terzo acquirente.
Ciò comporta che, almeno in linea puramente teorica, chi acquista il fondo dal livellario, è comunque tenuto al pagamento del canone nei confronti del concedente, in quanto si tratta di una obbligazione che segue il fondo, chiunque ne diventi livellario.

Stando così le cose, è certamente improbabile che qualunque terzo sia disposto ad acquistare un immobile gravato da livello.
Di contro, non può nascondersi la difficoltà, in casi come quello in esame, di potersi avvalere della procedura di affrancazione (sia essa giudiziale che extragiudiziale), in quanto nella maggior parte dei casi non è neppure possibile rinvenire il titolo costitutivo del rapporto, mentre, come si sostiene in giurisprudenza (cfr. Cass. N. 4197/1982), colui il quale richiede l’affrancazione del fondo in enfiteusi è tenuto a dimostrare la propria qualità di enfiteuta, fornendo la prova dell’esistenza del titolo costitutivo a proprio favore ovvero che il diritto sia a lui pervenuto attraverso una serie ininterrotta di trasferimenti (sarebbe del tutto insufficiente la mera risultanza catastale del livello).

Una tale situazione può, dunque, indurre a pensare di ripiegare sull’istituto giuridico dell’usucapione.
A tal proposito la Corte di Cassazione in diverse pronunce (tra cui possono citarsi Cass. 177/1946; Cass. N. 2100/1960; Cass. N. 2904/1962; Cass. N. 323/1973; Cass. N. 4231/1976) ha affermato che “l’omesso pagamento del canone, per qualsiasi tempo protratto, non giova a mutarne il titolo del possesso”, argomentando dal fatto che, per il preciso disposto dell’art. 1164 del c.c., il diritto del concedente a riscuotere il canone non si estingue per usucapione (è possibile usucapire solo il diritto dell’enfiteuta, mentre il dominio diretto, ossia il diritto del concedente ad ottenere il pagamento del livello, assimilabile al diritto di proprietà, è imprescrittibile).

Pertanto, nel caso in cui il livellario, o i suoi eredi o aventi causa, abbiano continuato a possedere il fondo, senza tuttavia pagare il canone per più di venti anni, il diritto del concedente di ricevere il canone non si prescrive, trattandosi di una facoltà perpetua, inerente il diritto di proprietà del concedente.
Dal canto suo il livellario, sempre in forza di quanto disposto dall’art. 1164 c.c., può usucapire il dominio diretto purché abbia mutato il titolo del suo possesso (interversio possessionis) ed in presenza degli altri presupposti di legge (quali il passare del tempo, il possesso continuo ed ininterrotto e così via).

Si configura una interversio possessionis ogniqualvolta si realizzi un mutamento della detenzione o del possesso corrispondente all’esercizio di un diritto reale su cosa altrui in possesso coincidente all’esercizio del diritto di proprietà; è da tale momento che comincerà a decorrere il tempo necessario per l’usucapione del diritto di proprietà, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1141 e 1164 c.c.

Il caso classico in cui può realizzarsi un mutamento di detenzione in possesso ricorre allorché l’originario enfiteuta-livellario abbia ceduto ad altri per atto tra vivi la piena proprietà del fondo, garantendo l’immobile come libero da qualunque gravame e senza fare alcuna menzione dei diritti in questione (da tale momento comincia a decorrere il termine per avvalersi dell’usucapione decennale).

Fattispecie del tutto peculiare è quella a cui si vorrebbe fare ricorso nel caso di specie, ossia ricollegare l’interversio possessionis alla trasformazione sostanziale ed irreversibile del fondo, trasformazione tale da non poter essere inquadrata come miglioria.
A tal proposito, e con specifico riferimento alla costruzione di un fabbricato su terreno gravato da livello, si rinviene una nota dell’Avvocatura dello Stato (nota n. 8475 del 19.12.1991), in cui si sostiene che i fabbricati costruiti su terreni gravati da livello non possono essere considerati migliorie, in quanto ogni attività di trasformazione edilizia esula completamente da quelli che sono gli obblighi gravanti sull’enfiteuta/livellario.
Proprio in considerazione di ciò, dunque, ci si è chiesti se la trasformazione edilizia sia idonea o meno a configurare una interversio possessionis, ed a tale interrogativo ha, in diverse occasioni, risposto positivamente, la Corte di Cassazione (si vedano, da ultimo, Cass. N. 1296/2010; Cass. N. 5419/2011 e Cass. N. 27251 del 18.12.2011), affermando che il mutamento della detenzione in possesso può farsi discendere anche dal compimento di sole attività materiali (quale la costruzione di una abitazione), se queste rivelano in modo inequivocabile e riconoscibile da parte dell’avente diritto l’intenzione del detentore di esercitare il potere sulla cosa esclusivamente nomine proprio, vantando per sé il diritto corrispondente al possesso in contrapposizione con quello del titolare della cosa.

Afferma la Cass. che il diritto di edificare costituisce esercizio di una facoltà inerente al diritto di proprietà, la quale si manifesta anche verso l’esterno mediante una condotta riconoscibile da tutti e, dunque, in linea puramente astratta, anche dal proprietario.
Peraltro, sempre secondo la S.C., la stessa autorizzazione che il Comune competente concede al livellario enfiteuta, qualificatosi come proprietario richiedente, di realizzare un manufatto edilizio, è in grado di manifestare inequivocabilmente all’esterno l’intenzione da parte del livellario di esercitare il potere esclusivamente nomine proprio.

In presenza di tali condizioni (tutte presenti nel caso di specie), si ritiene, dunque, che sia possibile avvalersi dell’istituto giuridico dell’usucapione.
Tuttavia, seppure secondo quanto risulta dalle norme che il codice civile detta in materia di usucapione, quest’ultima sembrerebbe operare ipso iure (ossia per effetto del solo possesso e del decorso del tempo, dovendosi attribuire alla sentenza valore meramente dichiarativo), allo stato attuale, è estremamente difficile riuscire a trovare un notaio disposto a ricevere un atto di compravendita da chi non è pieno proprietario, ma dichiari in atti di essere tale in forza di continuo ed ininterrotto possesso ultraventennale.

L’unica strada percorribile, pertanto, è quella che l’interessato riesca ad ottenere una sentenza che accerti il relativo acquisto, così da avere una corretta intestazione catastale ed una trascrizione relativa al diritto di piena proprietà in suo favore, e ciò malgrado si rinvenga un precedente della Corte di Cassazione (Cass. n. 2485/2007), in cui la S.C. ritiene ammissibile che il livellario possa vendere la piena proprietà del fondo senza che l’usucapione sia stata dichiarata giudizialmente.

Soltanto in questo modo si ritiene che il problema possa essere superato, mentre non si intravedono i presupposti per giungere ad una transazione tra privati (altra soluzione prospettata nel quesito).

Alla luce delle conclusioni a cui si è pervenuti, dunque, si ritiene possibile che colui il quale risulta livellario possa concludere con chi intende acquistare un preliminare di compravendita, subordinando la stipula del contratto definitivo all’estinzione del livello per riconoscimento giudiziale dell’intervenuta usucapione, ed impegnandosi a tal fine ad avviare le necessarie pratiche entro il termine di sei mesi.
Non sarà possibile fissare un termine preciso per la stipula del definitivo, in quanto non è certamente possibile preventivare per quanto tempo si potrà protrarre il giudizio.
Non è neppure possibile stipulare l’atto di compravendita nella qualità di livellario/enfiteuta ed inserirvi la clausola con la quale ci si obbliga ad avviare entro sei mesi le pratiche per conseguire la cancellazione del livello, anche configurando tale clausola come una condizione risolutiva e subordinando la risoluzione della compravendita al mancato accertamento giudiziale dell’intervenuta usucapione.
Infatti, una volta alienato l’immobile, non si avrebbe più alcun titolo per poter agire in giudizio.