AUTORE:
Gloria Cerboni
ANNO ACCADEMICO: 2021
TIPOLOGIA: Tesi di Laurea Magistrale
ATENEO: Universitą degli Studi di Perugia
FACOLTÀ: Giurisprudenza
ABSTRACT
Il Codice di procedura penale vigente nasce sotto la spinta di una nuova cultura fondata sulla Costituzione, con la chiara intenzione di adeguare la struttura procedurale ai principi espressi dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalle Convenzioni internazionali.
Uno degli architravi del codice di procedura penale del 1988 risulta essere l’idea di superare il modello procedurale unico, a favore di una pluralità di segmenti giurisdizionali ispirati a logiche premiali o di efficienza complessiva del sistema processuale. La ragion d’essere dichiarata è stata quella di tentare di accelerare la risoluzione delle vicende per compensare il naturale maggiore dispendio dei tempi dovuto dalle scansioni tipiche, e più complesse, di un modello processuale accusatorio, fondato sul continuo confronto dialettico tra parti e giudice. Il legislatore, nell’ottica descritta, ha effettuato un’iniziale differenziazione dei modelli procedurali ispirandosi, per un verso, alla logica premiale - patteggiamento, decreto penale di condanna e giudizio abbreviato - e, per altro verso, a quella della accelerazione fondata sulla evidenza probatoria - giudizio direttissimo e immediato - scelta quest’ultima, comunque indirettamente finalizzata a portare l’imputato verso soluzioni autenticamente deflattive.
Sicuramente, l’idea di limitare il ricorso al rito ordinario rappresenta un’esigenza indubbia e centrale in ogni sistema processuale ispirato al principio della ragionevole durata del processo.
Lo snodo critico, tuttavia, non riguarda il “se” ma il “come” e non coinvolge l’idea ma la sua modalità attuativa.
L’esigenza oggettiva avvertita dal legislatore italiano ha indotto ad un confronto con i sistemi giuridici di altri paesi, in particolare con gli istituti di ordinamenti di common law, ove poche unità percentuali di regiudicande approdano al dibattimento, lasciando invece tutte le altre alle cure di meccanismi di “giustizia negoziata”: caratterizzati dalla definizione anticipata del processo attraverso accordi tra le parti per selezionare vicende ed evitare un intasamento del dibattimento.
Tra i riti introdotti dal legislatore italiano, quello che doveva assicurare un maggior effetto deflattivo con un dispendio minimo di energie giurisdizionali, era proprio quello dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, il c.d. patteggiamento, anch'esso appartenete al genus della “giustizia negoziata” e di dichiarata ispirazione nordamericana. Si riteneva che questo istituto, pur nelle vistose anomalie che ne caratterizzavano la struttura procedurale, fosse quello che meglio si prestasse al raggiungimento delle finalità richiamate e che il prezzo da pagare ai principi della giurisdizione fosse mitigato dalla limitata entità delle pene irrogabili, cioè fino a due anni di reclusione.
Purtroppo, l’evoluzione normativa, passata attraverso il varo della legge 134 del 2003 sul c.d. patteggiamento allargato, che ha esteso l’ambito di ricorso a tale rito, riguardando pene fino a cinque anni di reclusione, ha destrutturato l’argomentazione implementando notevolmente e significativamente le antiche perplessità. La prassi applicativa ha, contemporaneamente, mostrato in modo drastico come la percentuale di accesso ai riti deflattivi, ed al patteggiamento in particolare, fosse lontana da quella auspicata.
Al naufragio della ragion d’essere spesa dal legislatore del 1988, corrisponde un aumento di riflessioni e dubbi riguardo tale istituto, che può essere ritenuto più vicino alle antiche esperienze borboniche che alla modernità americana ove, peraltro, la logica e i principi processuali sono completamente diversi da quelli italiani.
Al riguardo, è opportuno riflettere sull’utilità concreta di questo istituto e sui collaterali danni culturali che esso può generare.
Il punto dolente del patteggiamento è rappresentato dalla mancanza di “un pieno accertamento di responsabilità”, fatto che rappresenta, secondo la tradizione giuridica italiana, un ostacolo oggettivo all’applicazione di una pena che può arrivare anche a cinque anni di reclusione. Il legislatore, tuttavia, ha escluso da questa possibilità fasce di reati e di soggetti quasi che fosse “un regalo insopportabile”, se riconosciuto rispetto a fattispecie oggettive e soggettive particolari.
Il punto centrale della riflessione è sull’estrema difficoltà del sistema giuridico di riconoscere, sul piano soprattutto costituzionale, l’idea di una condanna senza giudizio, diffidenza che aumenta in proporzione all’aumentare della sanzione irrogabile attraverso questo percorso.
Uno degli architravi del codice di procedura penale del 1988 risulta essere l’idea di superare il modello procedurale unico, a favore di una pluralità di segmenti giurisdizionali ispirati a logiche premiali o di efficienza complessiva del sistema processuale. La ragion d’essere dichiarata è stata quella di tentare di accelerare la risoluzione delle vicende per compensare il naturale maggiore dispendio dei tempi dovuto dalle scansioni tipiche, e più complesse, di un modello processuale accusatorio, fondato sul continuo confronto dialettico tra parti e giudice. Il legislatore, nell’ottica descritta, ha effettuato un’iniziale differenziazione dei modelli procedurali ispirandosi, per un verso, alla logica premiale - patteggiamento, decreto penale di condanna e giudizio abbreviato - e, per altro verso, a quella della accelerazione fondata sulla evidenza probatoria - giudizio direttissimo e immediato - scelta quest’ultima, comunque indirettamente finalizzata a portare l’imputato verso soluzioni autenticamente deflattive.
Sicuramente, l’idea di limitare il ricorso al rito ordinario rappresenta un’esigenza indubbia e centrale in ogni sistema processuale ispirato al principio della ragionevole durata del processo.
Lo snodo critico, tuttavia, non riguarda il “se” ma il “come” e non coinvolge l’idea ma la sua modalità attuativa.
L’esigenza oggettiva avvertita dal legislatore italiano ha indotto ad un confronto con i sistemi giuridici di altri paesi, in particolare con gli istituti di ordinamenti di common law, ove poche unità percentuali di regiudicande approdano al dibattimento, lasciando invece tutte le altre alle cure di meccanismi di “giustizia negoziata”: caratterizzati dalla definizione anticipata del processo attraverso accordi tra le parti per selezionare vicende ed evitare un intasamento del dibattimento.
Tra i riti introdotti dal legislatore italiano, quello che doveva assicurare un maggior effetto deflattivo con un dispendio minimo di energie giurisdizionali, era proprio quello dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, il c.d. patteggiamento, anch'esso appartenete al genus della “giustizia negoziata” e di dichiarata ispirazione nordamericana. Si riteneva che questo istituto, pur nelle vistose anomalie che ne caratterizzavano la struttura procedurale, fosse quello che meglio si prestasse al raggiungimento delle finalità richiamate e che il prezzo da pagare ai principi della giurisdizione fosse mitigato dalla limitata entità delle pene irrogabili, cioè fino a due anni di reclusione.
Purtroppo, l’evoluzione normativa, passata attraverso il varo della legge 134 del 2003 sul c.d. patteggiamento allargato, che ha esteso l’ambito di ricorso a tale rito, riguardando pene fino a cinque anni di reclusione, ha destrutturato l’argomentazione implementando notevolmente e significativamente le antiche perplessità. La prassi applicativa ha, contemporaneamente, mostrato in modo drastico come la percentuale di accesso ai riti deflattivi, ed al patteggiamento in particolare, fosse lontana da quella auspicata.
Al naufragio della ragion d’essere spesa dal legislatore del 1988, corrisponde un aumento di riflessioni e dubbi riguardo tale istituto, che può essere ritenuto più vicino alle antiche esperienze borboniche che alla modernità americana ove, peraltro, la logica e i principi processuali sono completamente diversi da quelli italiani.
Al riguardo, è opportuno riflettere sull’utilità concreta di questo istituto e sui collaterali danni culturali che esso può generare.
Il punto dolente del patteggiamento è rappresentato dalla mancanza di “un pieno accertamento di responsabilità”, fatto che rappresenta, secondo la tradizione giuridica italiana, un ostacolo oggettivo all’applicazione di una pena che può arrivare anche a cinque anni di reclusione. Il legislatore, tuttavia, ha escluso da questa possibilità fasce di reati e di soggetti quasi che fosse “un regalo insopportabile”, se riconosciuto rispetto a fattispecie oggettive e soggettive particolari.
Il punto centrale della riflessione è sull’estrema difficoltà del sistema giuridico di riconoscere, sul piano soprattutto costituzionale, l’idea di una condanna senza giudizio, diffidenza che aumenta in proporzione all’aumentare della sanzione irrogabile attraverso questo percorso.