Nel caso esaminato dalla Cassazione, una lavoratrice aveva impugnato il licenziamento intimatole dal datore di lavoro, a seguito del suo rifiuto di sottostare alle molestie sessuali dal medesimo perpetrate.
La domanda di impugnazione del licenziamento veniva accolta in primo grado e confermata in grado d’appello, con conseguente condanna del datore di lavoro a reintegrare la donna del posto di lavoro precedentemente occupato.
I giudici dei primi due gradi di giudizio, infatti, ritenevano accertato che il licenziamento fosse stato dovuto ad una “ritorsione” del datore di lavoro, a seguito del rifiuto della donna di sottostare alle molestie sessuali rivolte nei suoi confronti.
Il datore di lavoro, ritenendo la sentenza ingiusta, proponeva ricorso per Cassazione, evidenziando come la Corte d’appello non avesse dato corretta applicazione all’art. 18 della legge n. 300/70, ritenendo erroneamente provata la sussistenza delle molestie sessuali.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
La Cassazione evidenziava, infatti, come la Corte d’appello avesse desunto la sussistenza delle molestie sessuali “sulla base di plurime deposizioni che hanno riferito di molestie in loro danno, analoghe a quelle lamentate” dalla ricorrente.
Le affermazioni delle testi, peraltro, trovavano conferma anche nel fatto che vi era stato un “serrato turn over tra le giovani dipendenti assunte dall’odierno ricorrente, che dopo un breve periodo di lavoro si dimettevano senza apparente ragione”.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, si trattava di “un quadro complessivo che correttamente i giudici di merito hanno ritenuto tale da imporre quell’inversione dell’onere probatorio a carico del datore di lavoro (…), prescritta dall’art. 40 d. lgs. 198/06 in ipotesi di discriminazione di sesso”.
Precisava la Cassazione, in proposito, che doveva tenersi conto della “generale equiparazione fra discriminazioni di genere e molestie sessuali”, sancita dall’art. 26 del medesimo decreto legislativo sopra citato, con la conseguenza che, in entrambi i casi, trova applicazione il disposto del successivo art. 40, in tema di ripartizione dell’onere della prova.
Quanto all’assimilazione tra “discriminazioni” e “molestie sessuali”, peraltro, anche la Corte di Giustizia, nella sentenza n. 303/06, ha precisato che le molestie “sono una forma di discriminazione”, con la conseguenza che alle medesime “sono applicabili le stesse disposizioni in tema di onere della prova, nel senso che, ove risultino fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione, diretta o indiretta, incombe alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del divieto di discriminazione”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal datore di lavoro, confermando integralmente la sentenza di primo grado e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.