La questione sottoposta all’attenzione degli Ermellini nasceva dalla vicenda che vedeva come protagonisti alcuni nipoti, i quali, dopo aver perso la propria nonna in seguito ad un intervento chirurgico che le aveva causato una perforazione intestinale, avevano citato in giudizio l’Azienda Sanitaria in cui aveva avuto luogo detto intervento, al fine di sentir accertare la responsabilità dei medici che si erano occupati della donna, nonché di ottenere la condanna dell’Azienda Sanitaria al risarcimento del danno, sia iure hereditatis che iure proprio.
Mentre, però, le istanze attoree venivano accolte in primo grado, esse venivano disattese all’esito del giudizio d’appello, in cui la Corte territoriale, aderendo ad un orientamento espresso in materia dalla Cassazione, dichiarava che, ai fini della risarcibilità del danno parentale iure proprio, fosse necessaria, oltre alla sussistenza di un intenso legame affettivo, anche la convivenza, requisito, questo, non soddisfatto nel caso di specie.
Rimasti soccombenti, gli originari attori ricorrevano dinanzi alla Corte di Cassazione, eccependo, in primo luogo, come i giudici della Corte d’Appello avessero omesso di esaminare il dato storico della loro convivenza con la defunta nonna, il che assumeva una rilevanza decisiva ai fini del riconoscimento del loro diritto al risarcimento del danno iure proprio.
Si lamentava, poi, la violazione degli articoli 1223, 1226, 2056 e 2059 del Codice Civile, laddove la Corte d’Appello, ai fini del riconoscimento del risarcimento del danno chiesto iure proprio dai nipoti, a seguito della morte della nonna, aveva ritenuto necessaria la loro convivenza. Secondo i ricorrenti, infatti, la Corte territoriale aveva errato nell’aderire apertamente ad un orientamento non univoco della Corte di legittimità, senza prendere in considerazione quello più recente in base al quale, contrariamente al primo, la convivenza non sarebbe un presupposto necessario per il risarcimento del danno non patrimoniale subito iure proprio dai nipoti. Secondo tale ultimo orientamento giurisprudenziale, infatti, l’elemento decisivo non sarebbe costituito dalla convivenza dei soggetti interessati, quanto, piuttosto, dalla sussistenza di una lesione all’integrità familiare e alla rete di relazioni affettive che si creano e si fortificano all’interno della famiglia.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, ritenendo fondato il secondo motivo e giudicando assorbito il primo.
Con tale decisione la Cassazione ha, dunque, ritenuto opportuno dare continuità al suo più recente orientamento in materia, in base al quale “in caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale “da uccisione”, proposta “iure proprio” dai congiunti dell’ucciso, questi ultimi devono provare la effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l’azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno; infatti, non essendo condivisibile limitare la “società naturale”, cui fa riferimento l’art. 29 Cost., all’ambito ristretto della sola cd. “famiglia nucleare”, il rapporto nonni-nipoti non può essere ancorato alla convivenza, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, escludendo automaticamente, nel caso di non sussistenza della stessa, la possibilità per tali congiunti di provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto” (Cass. Civ., n. 29332/2017).