Il caso sottoposto all’esame della Cassazione ha visto come protagonisti i fratelli, la madre e la moglie di un soggetto, che era deceduto a seguito di un incidente verificatosi nel luogo di lavoro.
I congiunti del defunto, dunque, avevano agito in giudizio nei confronti della società datrice di lavoro, al fine di ottenere la condanna della stessa al risarcimento del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) “per perdita del rapporto parentale sofferto in seguito al decesso del loro congiunto”.
La domanda era stata accolta sia in primo che in secondo grado, con la conseguenza che la società in questione aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo la Corte d’appello, in particolare, in caso di morte di un stretto congiunto (come il genitore, il coniuge, il figlio o il fratello), il danno conseguente alla perdita subita deve essere “presunto”, “dovendosi ritenere che nella ordinarietà delle relazioni umane, i parenti stretti sono fra loro legati da vincoli di reciproco affetto e solidarietà in quanto facenti parte dello stesso nucleo familiare”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di dover aderire alle considerazioni svolte dal giudice di secondo grado, accogliendo il ricorso proposto dalla datrice di lavoro, in quanto fondato.
Osservava la Cassazione, in primo luogo, che “il danno non patrimoniale da uccisione del congiunto” deve essere “allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento”.
Precisava la Cassazione, inoltre, che la liquidazione di tale danno deve essere effettuata “in base a valutazione equitativa che tenga conto dell'intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore utile circostanza, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l'età della vittima e dei singoli superstiti e di ogni ulteriore circostanza allegata”.
Ebbene, nel caso di specie, secondo la Cassazione, l’affermazione della Corte d’appello, secondo cui i congiunti del defunto non sarebbero stati onerati “di fornire la prova di relazioni di convivenza o di vicendevole affetto e frequentazione” non appariva in linea con i suindicati principi, dal momento che “la possibilità di provare per presunzioni non esonera chi lamenta un danno e ne chiede il risarcimento da darne concreta allegazione e prova”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, annullando la sentenza impugnata e rinviando la causa alla Corte d’appello di Bari, affinchè la medesima decidesse nuovamente sulla questione.