Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’Appello aveva rigettato l’impugnazione proposta dalla moglie, avverso la sentenza di primo grado che aveva pronunciato la separazione fra l’appellante e il coniuge, disponendo l’affidamento condiviso dei figli, con collocazione prevalente presso la madre.
Con la medesima pronuncia, inoltre, il Tribunale aveva incaricato il consultorio familiare di monitorare e sostenere i genitori, secondo le modalità ritenute opportune, “con ascolto periodico dei minori al fine di vigilare sulle dinamiche relazionali dei genitori con la prole” e imponendo al padre “di assicurare, anche nei tempi di permanenza presso di lui, la continuità nelle abitudini e negli impegni dei figli, provvedendovi direttamente o, qualora a ciò ostino le sue convinzioni religiose, facendo ricorso alla collaborazione della madre e dei nonni dei minori”.
La moglie decideva di proporre ricorso per Cassazione, sostenendo che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente rigettato la domanda di addebito della separazione al marito e la richiesta di affidamento esclusivo dei figli alla ricorrente, “nonostante la conversione dell’uomo al credo religioso dei Testimoni di Geova”, con “conseguente disconoscimento dei valori da lui fino ad allora accettati e trasmessi ai figli” e “adesione a valori inconciliabili con quelli propri del cattolicesimo, accettati con il matrimonio concordatario e coincidenti con quelli costituzionali”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dalla ricorrente, rigettando il relativo ricorso.
Secondo la Corte, infatti, nell’escludere l’addebito della separazione al marito, in virtù dell’adesione del medesimo al credo dei Testimoni di Geova, la Corte d’Appello si era correttamente attenuta al principio (affermato anche dalla stessa Cassazione, con la sentenza n. 15241 del 2004), secondo cui “nonostante l’incidenza sull’armonia della coppia, il mutamento di fede religiosa da parte di uno dei coniugi e la conseguente partecipazione dello stesso alle pratiche collettive del nuovo culto, configurandosi come esercizio dei diritti garantiti dall’art. 19 della Costituzione, non possono rappresentare, in quanto tali, ragioni sufficienti a giustificare la pronuncia di addebito della separazione, a meno che l’adesione al nuovo credo religioso non si traduca in comportamenti incompatibili con i concorrenti doveri di coniuge e di genitore previsti dagli artt. 143 e 147 cod. civ., in tal modo determinando una situazione di improseguibilità della convivenza o di grave pregiudizio per l’interesse della prole”.
Infatti, la Corte d’Appello aveva rilevato che la conversione avrebbe potuto legittimare l’addebito della separazione solo “in quanto avesse trovato espressione in atteggiamenti concreti non meramente dissonanti dal predetto modello, ma chiaramente contrari ai doveri di condotta che ne scaturiscono a carico dei coniugi”.
Nel caso di specie, invece, il giudice di secondo grado aveva ritenuto “non provato che le affermazioni di principio contenute nei testi ufficiali della confessione religiosa in questione, citate dalla ricorrente quali espressioni di una concezione della vita e della famiglia diverse da quella cattolica, precedentemente professata dal controricorrente, lo avessero indotto all’assunzione di siffatti comportamenti”.
Per le stesse ragioni, inoltre, doveva escludersi che la conversione “potesse costituire di per sé una ragione sufficiente a giustificare l’affidamento esclusivo dei figli minori”, dal momento che era stato accertato che “nonostante le diverse convinzioni religiose, entrambi i coniugi apparivano effettivamente legati ai figli e capaci di accudirli nella quotidianità”.
In tema di affidamento dei figli minori, infatti, ricorda la Cassazione, “il criterio fondamentale al quale deve attenersi il giudice della separazione o del divorzio è costituito dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole”, previsto dall’art. 337 quater codice civile, il quale impone di “privilegiare la soluzione che appaia più idonea a ridurre al massimo i danni derivanti dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla ricorrente, condannando la medesima al pagamento delle spese processuali.