L’utente nello specifico affermava che Facebook dal dicembre 2020 all’agosto 2021 aveva limitato più volte l’accesso al suo profilo impedendogli di svolgere la sua opera di amministratore del gruppo. Inoltre, tali sospensioni variavano da 24 ore a 30 giorni con la conseguente rimozione dei post incriminati.
Tali scritte e immagini violavano i cosiddetti Standard della community e pertanto venivano sanzionati.
Nello specifico l’ultimo post, poi rimosso, riproduceva il discorso dalla Camera dei Deputati di un parlamentare che si esprimeva sulla situazione epidemiologica legata al diffondersi del Covid-19.
La connessa didascalia conteneva una critica alle modalità utilizzate dal Governo per affrontare l’emergenza sanitaria.
Le doglianze del ricorrente riguardavano in primis la qualificazione del contratto che l’utente avrebbe sottoscritto con il social: nello specifico lo stesso doveva essere inquadrato come contratto a prestazioni corrispettive con clausole vessatorie per l’utente, quindi nulle ex art. 36 del Codice del consumo.
In secondo luogo, la rimozione dei post connotava l’assenza di buona fede da parte del social che limitava la possibilità del ricorrente di accedere al proprio profilo calpestando alcuni diritti fondamentali presenti in Costituzione.
Tali decisioni infatti venivano prese arbitrariamente in assenza di alcuna spiegazione o contraddittorio tra le parti.
Il ricorrente infine, chiedeva al Tribunale il riconoscimento di un risarcimento pari a 200 euro per ogni giorno di chiusura forzata del profilo ed una penale di 500 euro per ogni giorni di ritardo nell’applicazione della richiesta ordinanza.
D’altro canto Facebook Ireland LTD contestava puntualmente quanto sanzionato da parte ricorrente affermando che i servizio Facebook viene fornito da una piattaforma privata che espone chiaramente le proprie regole ad ogni utente nell’ambito dell’autonomia privata e che pertanto vengono accettate al momento della conclusione della procedura di iscrizione.
Dal 2018 Facebook si è attivato per combattere la disinformazione, insieme a OMS, UNICEF e ECDC, per tutelare i propri utenti di fronte ad informazioni false sul Covid-19, aveva imposto determinate regole che l’utente aveva violato e pertanto gli erano state applicate le sanzioni previste all’interno della community. Inoltre, nessun diritto era stato violato in quanto i social non sono considerati servizio essenziale pertanto, ogni utente può continuare a manifestare il proprio pensiero altrove.
Il Tribunale di Varese nel prendere la sua decisione, prima di tutto si occupa di inquadrare correttamente la tipologia di contratto intercorsa l’utente e Facebook: nello specifico lo stesso viene considerato come “contratto per adesione” in quanto, per godere dei servizi offerti da Facebook, l’utente deve accettare, mediante flag, le condizioni d’uso predisposte in via unilaterale dalla piattaforma.
Precisa poi che è possibile considerarlo un contratto a prestazioni corrispettive poiché l’utente consente a Facebook di utilizzare i propri dati in cambio dell'uso degli strumenti di condivisione messi a disposizione dal social.
Pertanto le clausole contenute nelle condizioni d’uso non paiono assumere un carattere vessatorio a parere del giudice di Varese.
Si legge, infatti, nella sentenza che “le previsioni contrattuali in esame, astrattamente considerate, non possono ritenersi vessatorie (…) potendo essere ricondotte nell’alveo dell’ordinaria regolamentazione contrattuale, volta ad assicurare un’adeguata fruizione del servizio da parte di tutti gli utenti: Facebook presta un servizio dietro un corrispettivo e lo presta a determinate condizioni; nel contratto sono previsti determinati obblighi di comportamento, che devono essere rispettati dall’utente nella fruizione del servizio, pena la limitazione/sospensione del servizio da parte del professionista. Il potere riconosciuto contrattualmente a Facebook di limitare o sospendere il servizio può, in particolare, essere ricondotto all’interno dell’istituto di cui all’art. 1460 del Codice Civile”, ossia l’eccezione di inadempimento.
Il tema del controllo delle piattaforme social è sempre più pregnante nel mondo moderno, pertanto, la portata della sentenza del Tribunale di Varese consente di tracciare una linea di demarcazione al fine di comprendere che laddove le condizioni d’uso siano redatte per garantire il rispetto di valori costituzionalmente protetti e vengano accettate dall’utente, anche le relative sanzioni saranno legittime.