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Dare della cornuta su Facebook è reato di diffamazione

Dare della cornuta su Facebook è reato di diffamazione
Poichè il messaggio offensivo pubblicato su Facebook è idoneo a raggiungere un numero indeterminato di persone, la condotta integra il reato di diffamazione.
La Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 2723 del 20 gennaio 2017, ha fornito alcune interessanti precisazioni circa il reato di diffamazione (art. 595 cod. pen.) commesso mediante l’utilizzo del social network Facebook.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva confermato la condanna di un’imputata per il reato di diffamazione, riconoscendole, tuttavia, le attenuanti generiche e rideterminando la pena.

In particolare, la donna era stata condannata per aver inserito sul proprio profilo facebook un messaggio offensivo, accessibile a tutti, nei confronti della persona offesa, definendola “cornuta”.

La condannata, ritenendo la conferma della condanna ingiusta, decideva, dunque, di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento del provvedimento in questione.

Secondo la ricorrente, infatti, la Corte d’appello non aveva adeguatamente tenuto in considerazione il fatto che il pc utilizzato per offendere il danneggiato poteva essere stato utilizzato anche da altre persone che abitavano con l’imputata.

Secondo la ricorrente, inoltre, la Corte d’appello non avrebbe considerato che “l'imputata avrebbe potuto avere solo l'intenzione di chiarire con la persona offesa il suo destino sentimentale e non di offenderla, nè ridicolizzarla”.

La ricorrente, inoltre, evidenziava che l’espressione utilizzata non poteva essere considerata a contenuto offensivo, essendo tradizionalmente un’espressione che viene utilizzata nei confronti degli uomini.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dalla ricorrente, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.

La Corte di Cassazione osservava, infatti, che la motivazione resa dal giudice di secondo grado fosse “pienamente plausibile ed ineccepibile sotto il profilo logico, avendo valorizzato lo stringente argomento per cui la mittente dei messaggi incriminati, in cui D.L. era definita cornuta, aveva una relazione sentimentale, come in realtà capitava all'imputata O., col fidanzato della destinataria delle espressioni offensive”.

Inoltre, la Corte d’appello aveva “sottolineato il valore probante del messaggio in cui era stato chiesto all'amica della parte civile di intercedere presso di lei per la rimessione della querela, che era partito dal profilo facebook della giudicabile, persona che a tale atto aveva un chiaro interesse”.

Di conseguenza, “sulla base di tali inequivocabili elementi”, la ricorrente era stata coerentemente individuata come l’autrice delle comunicazioni denigratorie.

Precisava la Cassazione, inoltre, che “in base a dati di comune esperienza”, “la divulgazione di un messaggio tramite facebook, ha, per la natura di questo mezzo, potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, che, del resto, si avvalgono del social network proprio allo scopo di instaurare e coltivare relazioni interpersonali allargate ad un gruppo di frequentatori non determinato; pertanto se il contenuto della comunicazione in siffatto modo trasmessa è di carattere denigratorio, la stessa è idonea ad integrare il delitto di diffamazione”.

Quanto, infine, all'aspetto con il quale la ricorrente aveva “proposto una diversa interpretazione della parola incriminata, che perderebbe il contenuto offensivo se rivolta ad una donna in quanto comunemente diretta con significato dispregiativo e ridicolizzante verso il maschio”, la Cassazione rilevava “il senso discriminante nei confronti del genere femminile ed il contrasto col principio di uguaglianza tra i sessi di cui all'art 3 Costituzione, dal quale il discorso difensivo sembra ispirato, potendo sottendere il presupposto di una diversa considerazione culturale e sociale tra uomo e donna”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla ricorrente, confermando integralmente la sentenza di secondo grado e condannando la donna al pagamento delle spese processuali.


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