Nella prospettiva della giurisprudenza amministrativa, infatti, la Pubblica Amministrazione non può essere considerata quale mero debitore del privato, obbligato civilisticamente ad adempiere in forza di un vincolo giuridico precedentemente sorto. I termini a provvedere indicati ex art. 2 della legge sul proc. amministrativo sono infatti, a discapito del tenore letterale della norma, meramente ordinatori e non perentori e, per l’effetto, il loro scadere non consuma il potere della pubblica amministrazione a provvedere. Come ribadisce costantemente la giurisprudenza, la P.A. gode rispetto al cittadino di una “posizione di supremazia necessaria a perseguire i fini determinati dalla legge” e per l’effetto non può essere ritenuta obbligata a risarcire il danno per il solo mancato rispetto dei termini previsti dal singolo procedimento amministrativo.
La sentenza in commento si caratterizza anche per porsi in netto contrasto con l’orientamento giurisprudenziale della Cassazione (anche a Sezioni Unite), la quale ritiene inquadrabile la responsabilità della P.A. all’interno del modello del c.d. contatto sociale qualificato ex art. 1173 del c.c., che vedrebbe Amministrazione e privato posti su un piano pressoché paritario a causa degli obblighi di protezione che sorgono in capo all’ente pubblico in virtù della propria posizione di supremazia. Contrariamente, invece, l’interpretazione della giurisprudenza amministrativa conduce la domanda di risarcimento del privato in caso di tardiva o mancata emanazione di un provvedimento, con annessa lesione di un suo interesse legittimo, non al paradigma ex art. 1218 del c.c., bensì all’art. 2043 del c.c., dovendo il cittadino dimostrare l’ingiustizia del danno subito e non la mera mancata esecuzione di una prestazione da ritenersi dovuta.
Di conseguenza, il privato che vorrà ottenere tutela risarcitoria in giudizio dovrà necessariamente provare il c.d. giudizio di spettanza, così come formulato dalle S.U. 500/1999 ovvero che l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita" del medesimo, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere.
Al fine di avvalorare siffatto percorso argomentativo, il giudice amministrativo richiama i commi 2 e 4 dell’art. 30 del codice proc. amministrativo., nonché l’art. 2 bis della legge sul proc. amministrativo, comma 1. Inoltre, la Plenaria statuisce che sulla quantificazione della pretesa risarcitoria viene ad incidere anche la condotta complessiva posta in essere dal cittadino istante. Invero quest’ultimo, se fosse realmente preoccupato del pregiudizio economico in cui incorre a causa dell’inerzia amministrativa, dovrebbe esperire quei mezzi di tutela riconosciuti dall’ordinamento al fine di superare la medesima. Il comportamento del privato viene pertanto valutato al fine di escludere il risarcimento per quei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza” La mancata attivazione di siffatti strumenti concessi dall’ordinamento, come ribadito dal giudice degli interessi, non preclude l’esperibilità dell’azione risarcitoria ma costituisce elemento utile al giudice al fine di valutare l’entità del danno a ristorarsi.
Da ultimo, la Plenaria riferisce che per quanto relativo alle disposizioni in tema di conseguenze risarcibili si applica il combinato disposto ex art. 1223 del c.c. e art. 1227 del c.c., ma non la disposizione di cui ex art. 1225 del c.c., essendo il riferimento a quest’ultimo taciuto dallart. 2056 del c.c.. Per l’effetto, sono ristorabili esclusivamente le conseguenze immediate e dirette del fatto illecito e solo nel limite in cui queste ultime non sarebbero comunque state evitate da una condotta diligente del danneggiato. Inoltre, circa il profilo eziologico, la sopravvenienza non può considerarsi evenienza tale da interrompere il nesso di consequenzialità immediata e diretta che intercorre tra l’inerzia amministrativa e il mancato godimento dei benefici successivamente abrogati.