- sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente;
- hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice Civile.
Ma come si stabilisce, a fini fiscali, se un soggetto residente all’estero ha in Italia la sede principale dei suoi affari e interessi? Sulla base di indici presuntivi. In tal senso si è infatti recentemente espressa la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 8286 del 15 marzo 2022, ribadendo un orientamento già consolidato.
La Suprema Corte, invero, ha ricordato come la giurisprudenza di legittimità abbia già evidenziato - cfr. Cass. n. 678/2015 e Cass. n. 21694/2020 - che, ai sensi del combinato disposto del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 2 e dell'art. 43 c.c., deve considerarsi soggetto passivo il cittadino italiano che, pur risiedendo all'estero “stabilisca in Italia, per la maggior parte del periodo d'imposta, il suo domicilio, inteso come la sede principale degli affari ed interessi economici nonchè delle relazioni personali, come emergenti da elementi presuntivi.
A tali fini, elementi valorizzabili possono pertanto essere l'acquisto di beni immobili, la gestione di affari in contesti societari oppure la disponibilità di almeno un'abitazione nella quale trascorrere diversi periodi dell'anno.
Nel corso della motivazione della sentenza in esame, la Cassazione ha ricordato altresì come pure la Corte di Giustizia abbia più volte ribadito l'importanza della verifica dell'ubicazione del centro di interessi principali, quale luogo abituale della gestione degli interessi medesimi, che sia riconoscibile a terzi. Anche secondo la giurisprudenza eurocomunitaria, pertanto, per determinare il domicilio fiscale, devono valorizzarsi i legami personali e professionali evincibili dalla presenza fisica del contribuente e dei suoi familiari in uno Stato, dalla disponibilità di una abitazione, dal luogo di esercizio delle attività professionali e comunque dagli interessi patrimoniali.
Tanto premesso, la Suprema Corte ha concluso che ragionamenti condotti sulla base di riscontri comparativi non fanno applicazione dei principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di soggettività fiscale passiva del cittadino italiano, pur residente all'estero, così come dalla giurisprudenza unionale. Un corretto ragionamento volto ad identificare la sede principale degli affari ed interessi economici, nonchè anche dei rapporti affettivi del contribuente, pertanto, dovrà fondarsi su presunzioni.
La vicenda concreta sottoposta al vaglio della Cassazione, in particolare, riguardava l’impugnazione di un avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate aveva richiesto ad un contribuente il pagamento di maggiori imposte e di sanzioni in riferimento ad un passato periodo imposta. L’atto impositivo poggiava sul presupposto che il contribuente, pur iscritto all'AIRE, dovesse considerarsi fiscalmente residente in Italia sulla base di alcuni riscontri.
La Commissione Tributaria Provinciale aveva respinto la domanda del contribuente, annullando l’atto impositivo ma, successivamente, la Commissione Tributaria Regionale aveva accolto il suo appello e annullato l’avviso di accertamento, ritenendo che la complessiva documentazione allegata dal contribuente avesse inequivocabilmente dimostrato la sua residenza estera.
Avverso tale sentenza aveva dunque proposto ricorso l’Agenzia delle Entrate, dolendosi - per quanto qui di interesse - della violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 2 nonchè dell'art. 43 c.c., perchè erroneamente il giudice regionale ha ritenuto che la documentazione e gli elementi prodotti dal contribuente dimostrassero la residenza estera del contribuente. Ritenendo tale censura fondata, la Suprema Corte ha dunque cassatola sentenza.