La questione nasceva dal ricorso proposto dinanzi alla Suprema Corte da un uomo che, all’esito del giudizio d’appello, si era visto condannare per i reati di estorsione, lesioni personali e violenza privata.
Il ricorrente lamentava, innanzitutto, come la Corte d’Appello avesse omesso di valutare la richiesta difensiva di concessione del vizio parziale di mente, ex art. 89 del c.p., essendosi limitata a motivare il solo diniego del vizio totale di mente, ex art. 88 del c.p.
Si eccepiva, altresì, un vizio di motivazione ed un travisamento della prova costituita dalla perizia psichiatrica eseguita sul ricorrente, essendo stato negato che il suo disturbo della personalità, seppur riconosciuto, fosse di intensità tale da incidere sulla capacità dell’imputato. Così facendo, infatti, secondo il ricorrente, i giudici di merito avevano non solo disatteso i principi di diritto dettati dalla Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 9163/2005, ma anche applicato erroneamente gli articoli 88 e 89 c.p., non potendosi far riferimento al criterio, ormai superato, della malattia mentale.
La Suprema Corte ha, tuttavia, rigettato il ricorso, dichiarandolo inammissibile.
Gli Ermellini hanno, innanzitutto, evidenziato come la Corte d’Appello adita non avesse in alcun modo omesso di valutare la questione relativa al vizio parziale di mente, avendo essa proceduto ad escludere, con affermazioni precise, non solo il vizio totale di mente, ma anche qualsiasi altra compromissione della capacità di intendere e di volere penalmente rilevante.
Quanto, poi, all’asserita mancata applicazione dei principi giurisprudenziali affermati in materia dalle Sezioni Unite, la Cassazione ha ribadito come, proprio secondo quanto disposto da queste ultime, “ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità”, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell'imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità” (Cass. Pen., SS.UU., n. 9163/2005).
Secondo i giudici di legittimità, la Corte territoriale, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dell’imputato, ha applicato correttamente la seconda parte del citato principio di diritto, evidenziando espressamente come, anche alla luce delle modalità di consumazione dei delitti e, quindi, sulla base di un preciso giudizio di fatto non censurabile in Cassazione, il disturbo della personalità proprio del ricorrente, pur rendendolo affetto da un comportamento antisociale, non fosse in alcun modo idoneo ad incidere sulla sua capacità di intendere e di volere.
Gli Ermellini hanno, peraltro, evidenziato come la giurisprudenza successiva al citato intervento delle Sezioni Unite, abbia chiarito sia che “gli impulsi dell’azione, seppur riconosciuta come riprovevole dall’agente, devono essere tali da vanificare la capacità di apprezzarne le conseguenze” (Cass. Pen., n. 8282/2006), sia che “per essere rilevante il disturbo della personalità va valutato solo ove ricorra un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato da quello specifico disturbo mentale” (Cass. Pen., n. 18458/2012).