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Il Comune che non rimuove le barriere architettoniche deve risarcire il disabile

Il Comune che non rimuove le barriere architettoniche deve risarcire il disabile
Se il Comune non elimina le barriere architettoniche realizza una discriminazione indiretta ai danni del disabile che andrà risarcito.
La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3691/2020, si è pronunciata in merito alla possibilità o meno di condannare al risarcimento del danno da discriminazione indiretta, un Comune che non abbia rimosso le barriere architettoniche che impedivano l’ingresso nella sala consiliare alla consigliera affetta da disabilità.

La vicenda vedeva come protagonista una consigliera comunale disabile che aveva convenuto in giudizio il Comune, al fine di ottenere un risarcimento per il danno derivatole dall’impossibilità di accedere alle riunioni che venivano svolte nella sala consiliare a causa delle barriere architettoniche presenti. Sul luogo, infatti, non era presente un ascensore per disabili e, ogniqualvolta lei volesse accedervi, si trovava costretta a farsi trasportare dal personale per due rampe di scale per poi essere posizionata su una sorta di montascale, il che, ad un certo punto, aveva costretto il Comune a spostare le riunioni consiliari nella palestra di una scuola per agevolare la donna. Secondo quest’ultima, tuttavia, tali circostanze denotavano un comportamento discriminatorio da parte del Comune, del quale chiedeva l’immediata cessazione, unitamente alla condanna del convenuto alla realizzazione di opere idonee a permettere l’accesso ai diversamente abili, oltre, in ogni caso, al risarcimento del danno.

La donna, rimasta soccombente in primo grado, ricorreva dinanzi alla Corte d’Appello che accoglieva l’impugnazione, riconoscendole il diritto al risarcimento del danno. Secondo i giudici di secondo grado, infatti, la mancata eliminazione delle barriere architettoniche, che impedivano l’accesso di persone disabili alle sale comunali, avrebbe realizzato una discriminazione indiretta che, ai sensi dell’art. 2, comma 3, della l. n. 67/2006, si verifica qualora una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri meno una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto agli altri.
La Corte d’Appello precisava, inoltre, come si possa avere una discriminazione indiretta a prescindere dall’esistenza di un’intenzione discriminatoria in capo all’agente.
Veniva, altresì, rilevata l’inadeguatezza del montascale presente nella struttura.

Il Comune ricorreva, pertanto, in Cassazione, evidenziando, innanzitutto, il fatto che l’edificio comunale risaliva ai primi anni ’50, mentre la normativa in materia di barriere architettoniche era stata emanata soltanto nel 1999, peraltro, con natura programmatica. A parere del ricorrente, tali elementi assumevano particolare rilievo nel caso concreto poiché, come da lui sottolineato, l’art. 1 della l. n. 13/1999 prevede di poter essere applicato soltanto ai “progetti di nuovi edifici” o alla “ristrutturazione di interi edifici”, richiedendo, invece, che a quelli già esistenti siano apportati “tutti quegli accorgimenti che possano migliorarne la fruibilità da parte dei disabili”, condizione questa, che secondo il Comune sarebbe stata soddisfatta con l’installazione del montascale.
In relazione a quest’ultimo elemento, il ricorrente eccepiva, peraltro, come lo stesso fosse stato minimizzato dalla Corte d’Appello, nonostante contrassegnasse la volontà del Comune di superare la barriera architettonica esistente, escludendo, di conseguenza, l’imputabilità allo stesso di una condotta discriminatoria.

La donna, d’altro canto, proponeva a sua volta ricorso incidentale, con cui rilevava come il Comune non avesse mai attuato le misure necessarie a rendere le sale comunali maggiormente fruibili, considerato, peraltro, che il montascale presente non presentava le caratteristiche richieste dalla legge. Per questo motivo, a suo dire, la sentenza impugnata non sarebbe stata viziata nella parte in cui attribuisce al Comune una condotta indirettamente discriminatoria, visto che la legge non richiede, per la sua configurazione, una specifica volontà in tal senso.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso principale.
Secondo gli Ermellini, contrariamente a quanto affermato dal Comune, la normativa del 1999 non ha carattere meramente programmatico, bensì precettivo. Per questo motivo va considerata priva di giustificazione qualsiasi situazione di svantaggio per i disabili, i quali possono agire in giudizio ogniqualvolta sia loro impedita o limitata l’accessibilità ad un luogo, anche privato, a prescindere dall’esistenza di una norma che qualifichi lo stato di un certo luogo come barriera architettonica.

Secondo i giudici di legittimità, infatti, il concetto di accessibilità assume una valenza generale, stante l’affermarsi, nella società, di una sempre maggiore consapevolezza in ordine alla necessità di rimuovere ogni ostacolo all’esercizio dei diritti fondamentali dei disabili per facilitarne la vita di relazione e salvaguardare la loro personalità e la loro saluto psico-fisica.


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