La questione nasceva a seguito della richiesta risarcitoria avanzata da un soggetto, rimasto vittima di un sinistro stradale, unitamente ai propri congiunti.
L’uomo, rimasto soccombente all’esito del giudizio di merito, assieme ai propri congiunti, decideva di ricorrere dinanzi alla Corte di Cassazione, eccependo, tra le altre cose, un’erronea interpretazione, da parte dei giudici di merito, dell’art. 2697 del c.c., in relazione alla prova del danno iure proprio dei congiunti. Il Tribunale e la Corte d’Appello, considerando configurabile un danno ai congiunti, come conseguenza delle lesioni inferte ad un parente, solo se consistente in “un totale sconvolgimento delle abitudini di vita del nucleo familiare su cui si sono riverberate quali conseguenze gli effetti dell'evento traumatico subito dal familiare", avevano, infatti, ritenuto che, qualora non venisse fornita, come nel caso di specie, la prova di un tale sconvolgimento delle abitudini di vita, essa non potesse essere desunta dal mero rapporto di parentela.
La Suprema Corte ha, seppur parzialmente, accolto il ricorso, premurandosi di evidenziare quelli che sono i presupposti necessari per il riconoscimento, a favore dei prossimi congiunti del soggetto danneggiato, del diritto ad essere risarciti, iure proprio, del cosiddetto danno parentale.
Gli Ermellini hanno, innanzitutto, precisato che, secondo il loro costante orientamento, in astratto “il danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto di persona lesa in modo non lieve dall'altrui illecito, può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva ed in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta” (cfr. Cass. Civ., n. 11212/2019; Cass. Civ., n. 17058/2017).
Secondo loro, tuttavia, la pronuncia fatta oggetto di impugnazione risulta essere errata nelle proprie premesse.
Essa, infatti, sostiene che il danno risarcibile ai congiunti per le lesioni patite da un parente, vittima primaria dell’illecito, sia soltanto quello consistente nel “totale sconvolgimento delle abitudini di vita”. Tale impostazione è, tuttavia, errata, in quanto, come osservato dai giudici della Cassazione, dalle lesioni inferte ad un soggetto può derivare in capo ai congiunti, in astratto, sia un danno morale, quale sofferenza d’animo che non produce necessariamente uno sconvolgimento delle abitudini di vita, sia un danno biologico, ossia una malattia, che, però, può anch’essa non rilevare in alcun modo sulle abitudini di vita dei soggetti interessati.
Contrariamente, poi, alla tesi secondo cui quello subito dai congiunti del danneggiato sarebbe soltanto un danno riflesso, esso è, in realtà, un danno diretto, quale immediata conseguenza della lesione inferta al parente prossimo, la quale, quindi, rileva come fatto plurioffensivo.
L’insieme di tali elementi, secondo i giudici di legittimità, fa si che detti pregiudizi non debbano essere soggetti ad un onere della prova più rigoroso di altri, essendo, dunque, possibile dimostrarli anche attraverso presunzioni, tra le quali, chiaramente, non può che figurare, in primis, lo stretto rapporto di parentela esistente tra la vittima primaria e suoi congiunti.
Come evidenziato dagli Ermellini, infatti, l’esistenza di uno stretto rapporto di parentela fa presumere, secondo un criterio di normalità sociale, che genitori e fratelli soffrano per le gravissime e permanenti lesioni riportate dal congiunto prossimo. Né vi è bisogno, come erroneamente postulato dalla sentenza impugnata, che queste sofferenze si traducano in uno "sconvolgimento delle abitudini di vita", in quanto si tratta di conseguenze estranee al danno morale, che è, piuttosto, la soggettiva perturbazione dello stato d'animo, la sofferenza interiore della vittima, a prescindere dal fatto che essa influisca o meno sulle abitudini di vita.