La questione sottoposta all’esame degli Ermellini era nata in seguito all’impugnazione, proposta ai sensi dell’art. 524 del c.c., dalla creditrice di due coeredi che avevano rinunciato all’eredità dei propri genitori.
Di fronte all’accoglimento delle istanze attoree, all’esito di entrambi i gradi del giudizio di merito, i coeredi convenuti ricorrevano dinanzi alla Corte di Cassazione, eccependo la violazione e la falsa applicazione dell’art. 524 del c.c., in relazione all’art. 2697 del c.c.
A loro avviso, infatti, ai fini della prova dell’eventus damni, sarebbe dovuto ricadere in capo all’attrice l’onere di dimostrare la consistenza del patrimonio dei debitori, mentre essa, nel caso di specie, non vi aveva provveduto in alcun modo. Secondo i ricorrenti, dunque, i giudici di merito avevano indebitamente invertito l’onere della prova, avendo erroneamente richiesto che fossero i debitori convenuti a dimostrare la capienza dei propri patrimoni rispetto alle ragioni attoree, anche in seguito all’intervenuta rinuncia all’eredità.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Gli Ermellini hanno, infatti, evidenziato che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità “per l'impugnazione della rinunzia ereditaria ai sensi dell'art. 524 c.c., è richiesto il solo presupposto oggettivo del prevedibile danno ai creditori, che si verifica quando, al momento dell'esercizio dell'azione, fondate ragioni facciano apparire i beni personali del rinunziante insufficienti a soddisfare del tutto i suoi creditori” (Cass. Civ., n. 8519/2016).
Secondo una più risalente pronuncia della stessa Cassazione, peraltro, l’art. 524 c.c. “richiede un unico presupposto di carattere oggettivo, ossia che la rinunzia all'eredità da parte del debitore importi un danno per i suoi creditori, in quanto il suo patrimonio personale non basti a soddisfarli e l'eredità dimostri un attivo, aggiungendosi che basta che al momento della proposizione dell'azione di cui all'art. 524 c.c. il danno sia sicuramente prevedibile, nel senso che ricorrano fondate ragioni per ritenere che i beni personali del debitore possano non risultare sufficienti per soddisfare del tutto i suoi creditori” (Cass. Civ., n. 2394/1974).
Quanto, poi, alla ripartizione dell’onere della prova, i giudici di legittimità hanno ritenuto applicabili, anche nel caso de quo, i principi da essi espressi in relazione all’azione revocatoria, in base ai quali, una volta dimostrato il presupposto oggettivo dell'azione revocatoria ordinaria, ossia l’eventus damni, il quale ricorre non solo nel caso in cui l'atto dispositivo comprometta totalmente la consistenza patrimoniale del debitore, ma anche quando lo stesso atto determini una variazione quantitativa o anche soltanto qualitativa del patrimonio, che comporti una maggiore incertezza o difficoltà nel soddisfacimento del credito, è onere del debitore, che voglia sottrarsi agli effetti di tale azione, provare che il suo patrimonio residuo sia tale da soddisfare ampiamente le ragioni del creditore (Cass. Civ., n. 19207/2018; Cass. Civ., n. 1902/2015).
Alla luce di tali principi, appare dunque chiaro che i giudici di merito, contrariamente a quanto ritenuto dai ricorrenti, non hanno errato nell’aver richiesto a questi ultimi di dimostrare che il loro patrimonio, nonostante la rinuncia all’eredità, fosse in grado di soddisfare il credito dell’attrice.