Come ormai noto, la questione dell’addebito rappresenta un aspetto di notevole importanza, in quanto se la separazione viene addebitata ad uno dei coniugi, ciò ha come conseguenza che il medesimo sarà ritenuto responsabile della separazione stessa e, quindi, non potrà in alcun modo vedersi riconosciuto il diritto a percepire un assegno a titolo di contributo nel suo mantenimento.
Questo, in particolare, accade, quando viene affermato e provato, da parte del coniuge ricorrente, che l’altro coniuge ha tenuto determinati comportamenti che hanno portato alla violazione dei fondamentali doveri che derivano dal matrimonio (si pensi, ad esempio, al dovere di fedeltà, di assistenza, di coabitazione, ecc…).
Nella pronuncia in esame, la Corte affronta la questione delle eventuali “scuse” che siano state poste da un coniuge nei confronti dell’altro mediante lettere scritte, con le quali, dunque, il coniuge riconosce di aver dato luogo, attraverso il suo comportamento, alla determinazione di chiedere la separazione.
Occorre chiedersi, infatti, se tali comunicazioni possano essere considerate un vero e proprio riconoscimento di colpa che può dar luogo all’addebito della separazione.
Nel caso di specie, il coniuge, nel ricorso per separazione, aveva riportato alcune parti di lettere in cui l’altro coniuge si assumeva la responsabilità del fallimento della relazione coniugale.
In proposito, la Corte di Cassazione ha precisato come sia del tutto improprio attribuire a tali lettere il valore di una confessione, con la conseguenza che le stesse non possono incidere sulla decisione del giudice di addebitare o meno la separazione.
Le lettere stesse, infatti, continua la Corte, non dimostrano l’avvenuta violazione dei doveri coniugali, in quanto devono essere considerate delle semplici “autocritiche” che, peraltro, vengono effettuate “in un contesto riservato e con riferimento a una relazione quale quella matrimoniale in cui abitualmente il comportamento dei coniugi esprime luci ed ombre”.
Allo stesso modo, inoltre, il fatto di essersi assunti la responsabilità della separazione, non può certo valere come riconoscimento di aver tenuto un “comportamento violativo dei doveri coniugali tale da aver reso intollerabile la prosecuzione della relazione coniugale stessa”.
Piuttosto, prosegue la Corte, a tali comunicazioni dovrebbe attribuirsi il valore di “assunzione della scelta di interrompere il legame coniugale”, che equivale, comunque, all’esercizio di una libertà fondamentale per il coniuge, espressione della più generale libertà di autodeterminazione nella conduzione della propria vita familiare e personale: è chiaro, infatti, che un soggetto, come è libero di decidere di sposarsi o meno, così è libero anche di decidere di interrompere il rapporto coniugale (va osservato, infatti, che non esiste solo la separazione cosiddetta "consensuale", che presuppone un accordo dei coniugi, essendo possibile chiedere la separazione o il divorzio anche da parte di uno solo dei coniugi, anche se l’altro non è d’accordo).
Aderendo a queste argomentazioni, la Corte di Cassazione conclude escludendo categoricamente che queste dichiarazioni di assunzione di responsabilità possano assumere il valore di una vera e propria “confessione” (per la nozione di “confessione” si rimanda alla lettura dell’art. 2730 del c.c., che la definisce come “la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte”) che, in quanto prova legale, vincolerebbe il giudice a ritenere pienamente provati i fatti in essa contenuti.
In ogni caso, va precisato come la rilevanza probatoria di questi documenti non è del tutto nulla, dal momento che essi rappresentano, in ogni caso, dei semplici “argomenti di prova”, vale a dire degli indizi, che rimangono liberamente valutabili dal giudice e che potranno assumere maggiore rilevanza se supportati da ulteriori mezzi di prova di significato conforme.