La fattispecie descritta, infatti, rappresenta uno dei tanti casi di applicazione dell’art. 2051 c.c., che disciplina la responsabilità da cose in custodia. Tale norma, nello specifico, pone la regola generale per cui ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia: tanto prevede il legislatore alla luce della speciale connessione esistente tra una determinata res e il custode, cioè il soggetto che ha il potere di vigilanza e di controllo, anche di fatto, su di essa.
Ma, in una simile evenienza, quali principi vigono in tema di onere della prova? A questi riguardi, in particolare, occorre chiedersi se per il soggetto danneggiato sia sufficiente allegare il dato di fatto della custodia oppure sia necessario provare altresì il nesso di causa.
Ebbene, proprio a tale quesito ha fornito di recente risposta la Corte di Cassazione, ribadendo ancora una volta il saldo orientamento giurisprudenziale formatosi sul tema (cfr. Cass. n. 2477/2018; Cass. n. 12027/2017; Cass. n. 8229/2010) e applicandolo alla specifica fattispecie degli infortuni calcistici.
Con ordinanza n. 7172 del 4 marzo 2022, infatti, la Suprema Corte ha affermato che “l’art. 2051 cod. civ., nell’affermare la responsabilità del custode della res per i danni da questa cagionati, individua semplicemente un criterio di imputazione che prescinde da qualunque connotato di colpa operando sul piano oggettivo dell’accertamento del rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso, ma cionondimeno non esonera il danneggiato dalla prova del predetto nesso di causalità”.
Per queste ragioni, non può ritenersi condivisibile l’assunto per cui deve considerarsi “in re ipsa” il nesso tra lo stato dissestato del campo da calcio e l’infortunio, spettando invece al danneggiato l’onere della prova sul punto.
Il caso concreto sul quale si è pronunciata la Cassazione, segnatamente, riguardava l’infortunio subito da un calciatore a seguito di una caduta avvenuta in un campo da calcio malmesso. Lo sportivo così danneggiato aveva agito giudizialmente contro il custode del campo al fine di ottenere il risarcimento e il Tribunale aveva accolto la domanda attorea e condannato il convenuto ai sensi dell’art. 2051 c.c.
Avverso tale sentenza aveva dunque proposto appello il custode, dolendosi del mancato adempimento da parte del calciatore dell’onere probatorio, con specifico riferimento al nesso di causalità: la Corte d’appello, sulla scorta dell’orientamento giurisprudenziale appena esaminato, aveva dato ragione all’appellante e riformato la sentenza.
Per la cassazione della sentenza di secondo grado aveva allora proposto ricorso il danneggiato ma, sulla scorta dei principi sopra esposti, la Cassazione ha ritenuto inammissibile la doglianza.