La questione sottoposta alla Suprema Corte nasceva dalla vicenda che aveva visto come protagonista un avvocato, il quale si era visto respingere, dal Tribunale, il proprio reclamo presentato contro il provvedimento con cui il giudice delegato al fallimento di una società, sua cliente, aveva liquidato il suo compenso. Il Tribunale adito, nel respingere il reclamo proposto dal legale, evidenziava come, tra esso e la società, fosse intercorsa una convenzione in ordine al compenso, ai sensi dell’art. 13 della legge prof. forense.
L’avvocato, rimasto soccombente, decideva di ricorrere in Cassazione, eccependo, innanzitutto, come il Tribunale avesse errato nel ritenere liberamente accettato il compenso pattuito tra le parti.
Il ricorrente lamentava, altresì, la violazione dell’art. 31 della Cedu, il quale tutela la dignità del lavoro, che, a parere del legale, era stata lesa dalla riduzione del compenso di circa la metà, rispetto a quello ritenuto congruo dalla sentenza che aveva definito il giudizio, in relazione al quale era stata prestata l’opera professionale.
La Suprema Corte ha, tuttavia, rigettato il ricorso, giudicandolo infondato.
Gli Ermellini hanno, innanzitutto, evidenziato come l’art. 13 della legge prof. forense, stabilisca, in generale, che il compenso spettante al professionista è, di regola, pattuito per iscritto, all’atto del conferimento dell’incarico professionale, e che la pattuizione dei compensi è libera, salvo il divieto dei patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso, in tutto o in parte, una quota del bene oggetto della lite. Secondo la medesima norma, inoltre, i parametri indicati nell’apposito decreto ministeriale, ai sensi del comma 3 dell’art. 1 della legge prof. forense, possono essere applicati “quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge”.
Sul punto, i giudici di legittimità hanno, altresì, richiamato alcuni loro precedenti, in base ai quali “il compenso per prestazioni professionali va determinato in base alla tariffa e adeguato all'importanza dell'opera solo nel caso in cui esso non sia stato liberamente pattuito, in quanto l'art. 2233 del c.c. pone una garanzia di carattere preferenziale tra i vari criteri di determinazione del compenso, attribuendo rilevanza in primo luogo alla convenzione che sia intervenuta fra le parti e solo in mancanza di quest'ultima, in ordine successivo, alle tariffe e agli usi e, infine, alla determinazione del giudice” (Cass. Civ., n. 21235/2013).
Secondo il costante orientamento della stessa Cassazione, inoltre, “non rilevano, in ipotesi di libera pattuizione del compenso, neppure i minimi tariffari, giacché la previsione di codesti non si traduce in una norma imperativa idonea a rendere invalida qualsiasi pattuizione in deroga, visto che risponde all'interesse del decoro e della dignità delle singole categorie professionali e non a quello generale dell'intera collettività, che è il solo idoneo ad attribuire carattere di imperatività al precetto con la conseguente sanzione della nullità delle convenzioni ove a esso contrarie” (Cass. Civ., n. 17222/2011).
Sulla base di tali statuizioni gli Ermellini hanno, altresì, rilevato come l’asserita violazione delle norme sulla dignità del lavoro non risultasse coerente con il fatto che fosse stato stipulato un valido patto sul compenso, il quale ha natura negoziale e, dunque, fa riferimento alla sola volontà dei contraenti e all’interesse economico di ognuno di essi, ossia alla loro autonomia contrattuale.
Alla luce di ciò, dunque, secondo i giudici di legittimità, “in considerazione dell'esistenza di una valida convenzione sul compenso, non può in vero affermarsi che la condanna alle spese contenuta nella sentenza che ha definito la causa di merito (e afferente al distinto rapporto tra la parte soccombente e la parte vittoriosa) vada a costituire un "titolo ulteriore", non antitetico a quello derivante dalla pattuizione negoziale, come tale spendibile, al posto della pattuizione, nel distinto rapporto tra la parte vittoriosa e il proprio difensore”.
Secondo la Cassazione, pertanto, ai fini della determinazione del compenso spettante all’avvocato, è necessario fare riferimento, in primo luogo, all’accordo intercorso con il cliente e, solo in sua assenza, alle tariffe, agli usi ed, infine, alla decisione del giudice.