In particolare, se l’amministratore di condominio non tiene regolarmente la contabilità condominiale, egli ha diritto ugualmente al compenso?
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Roma aveva rigettato la domanda proposta dall’amministratore di un condominio nei confronti del condominio stesso, avente ad oggetto il pagamento del proprio compenso.
Secondo la Corte d’appello, infatti, dalle prove raccolte in corso di causa era “risultata la mancanza di un giornale di contabilità che avesse registrato cronologicamente le operazioni riguardanti il condominio, consentendo in modo puntuale la verifica dei documenti giustificativi, onde non era possibile ricostruire l’andamento delle uscite e dei pagamenti effettuati, per fatto imputabile all’amministratore, tra i cui doveri rientrava quello di corretta tenuta della contabilità” (art. 1129 cod. civ.).
Di conseguenza, secondo la Corte d’appello, “la mancata prova del pagamento del compenso dell’amministratore, derivante dalla mancanza di una regolare tenuta della contabilità, imputabile a quest’ultimo, non poteva pregiudicare le ragioni del condominio”.
Ritenendo la decisione ingiusta, l’amministratore decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, al fine di ottenere l’annullamento della sentenza di secondo grado che non gli aveva riconosciuto il diritto al compenso.
Secondo il ricorrente, in particolare, il condominio non aveva contestato l’esistenza del debito nei confronti dell’amministratore, che aveva trovato conferma anche in sede di istruttoria.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Secondo la Cassazione, infatti, era stato inequivocabilmente dimostrata “la mancanza di una contabilità regolare che registrasse cronologicamente le operazioni riguardanti la vita del condominio e che quindi consentisse la verifica dei documenti e dunque la giustificazione delle entrate ed uscite della gestione dell’ente condominiale”.
Osservava la Corte, in proposito, che “la contabilità presentata dall’amministratore del condominio, seppure non dev’essere redatta con forme rigorose, analoghe a quelle prescritte per i bilanci delle società, deve però essere idonea a rendere intellegibili ai condomini le voci di entrata e di uscita, con le relative quote di ripartizione, e cioè tale da fornire la prova, attraverso i corrispondenti documenti giustificativi dell’entità e causale degli esborsi fatti, e di tutti gli elementi di fatto che consentono di individuare e vagliare le modalità con cui l’incarico è stato eseguito, nonché di stabilire se l’operato di chi rende il conto sia uniformato a criteri di buona amministrazione”.
Ebbene, secondo la Corte, “in assenza di tale adempimento, il credito dell’amministratore non può ritenersi provato”, dal momento che il proprio diritto “al compenso ed al rimborso delle anticipazioni e spese sostenute è condizionato alla presentazione al mandante del rendiconto del proprio operato, che deve necessariamente comprendere la specificazione dei dati contabili delle entrate, delle uscite e del saldo finale”.
Infatti, “solo la deliberazione dell’assemblea di condominio che procede all’approvazione del rendiconto consuntivo emesso dall’amministratore ha valore di riconoscimento di debito in relazione alle poste passive specificamente indicate (Cass. 10153/2011), così come dalla delibera dell’assemblea condominiale di approvazione del rendiconto devono risultare le somme anticipate dall’amministratore nell’interesse del condominio (Cass. 1286/1997) non potendo in caso contrario ritenersi provato il relativo credito”.
Di conseguenza, poiché, nel caso in esame mancava una contabilità regolare e la stessa predisposizione ed approvazione del rendiconto annuale di gestione dell’amministratore non appariva idonea a fondare la prova del credito del ricorrente, la Corte di Cassazione non poteva che rigettare il ricorso proposto dall’amministratore stesso.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione confermava integralmente la sentenza emessa dalla Corte d’appello, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.