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Accettazione tacita eredità, non occorre la residenza nella casa del defunto per essere erede puro e semplice: la legge

Accettazione tacita eredità, non occorre la residenza nella casa del defunto per essere erede puro e semplice: la legge
Il chiamato all’eredità diviene automaticamente erede se, in diverse occasioni, viene rinvenuto all’interno dell’abitazione già del de cuius: nota a Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 21898 del 02/08/2024
Il fatto
Primo e Secondo, nella loro qualità di creditori sia di Tizia, chiamata all’eredità, che dei suoi defunti genitori, convenivano in giudizio Tizia chiedendo che venisse accertato, in capo alla convenuta, la qualità di erede pura e semplice dei suoi genitori per effetto di accettazione implicita ex art. 485 c.c. o, in subordine, di accettazione tacita ex art. 476 c.c.
Sia il giudice di primo grado che quello di secondo grado accoglievano le domande degli attori e, per l’effetto, dichiaravano Tizia erede pura e semplice dei propri genitori, ritenendo che vi fossero elementi indiziari gravi, precisi e concordanti dell’esercizio, da parte della stessa Tizia, di un possesso dell’immobile oggetto dell’asse ereditario, rilevante ex art. 485 c.c., a nulla valendo che la medesima risultasse residente altrove.
Avverso la sentenza di secondo grado Tizia propone ricorso per cassazione, affidato ad un solo motivo, sostenendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 116, 486 c.c. e dell’art. 2729 c.c.
In particolare si duole del fatto che la Corte d’Appello abbia ritenuto dimostrata, attraverso sole presunzioni (il fatto che l’ufficiale giudiziario l’avesse sempre trovata nell’immobile ereditario e che le avesse più volte personalmente consegnato atti giudiziari), la relazione materiale con i beni ereditari utile ex art. 485 c.c., malgrado parte attrice non avesse allegato nessuna prova diretta della disponibilità da parte della convenuta dell’immobile ereditario

La decisione
Secondo la S.C. il chiamato all’eredità, che si trovi nel possesso o nel compossesso anche di un solo bene, acquista la qualità di erede puro e semplice se - nel termine di tre mesi dal conseguimento del possesso - non redige l’inventario, conformemente a quanto disposto dal comma 2 dell’art. 485 c.c.
Presupposti di tale forma di accettazione ex lege sono, dunque, i seguenti:
  1. l’apertura della successione;
  2. la delazione ereditaria;
  3. il possesso dei beni;
  4. la mancata tempestiva redazione dell’inventario.

Per quanto concerne, in particolare, il presupposto sub c), non occorre che il possesso si manifesti necessariamente in una attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, ma è sufficiente che si instauri una relazione materiale tra i beni e il chiamato all’eredità, la quale può anche individuarsi nella semplice detenzione a titolo di custodia o di affidamento temporaneo.

In ordine, poi, alla prova della sussistenza di detta relazione materiale, allorché questa si debba ricavare da un ragionamento presuntivo, il giudice è tenuto, ex art. 2729 c.c., ad ammettere solo presunzioni “gravi, precise e concordanti”.
Nel caso di specie, il requisito della precisione può desumersi dal fatto noto dell’avvenuta ricezione, anche a mani proprie, di molteplici atti nella casa oggetto di successione e dopo l’apertura della successione, attestati dalle relate di notifica dell’ufficiale giudiziario.
Su tale fatto noto (accertata presenza costante nell’immobile ereditario) è stato correttamente fondato il giudizio di probabilità del fatto ignoto, ovvero la relazione materiale con il bene ereditario, nella consapevolezza di tale sua natura.

Conclusioni
Il principio generale accolto dal nostro ordinamento giuridico è quello secondo cui nessuno può diventare erede senza la propria volontà (cfr. art. 459 c.c.), a differenza di quanto avviene in Francia e Germania, dove il patrimonio del de cuius passa automaticamente all’erede senza alcuna manifestazione di volontà.
Il chiamato all’eredità, dunque, dal momento dell’apertura della successione e fino all’accettazione, diviene automaticamente titolare di una situazione giuridica complessa, in quanto si costituiscono, in capo allo stesso, sia il diritto potestativo di accettare l’eredità, sia il potere di compiere atti di amministrazione nell’interesse del patrimonio ereditario (cfr. art. 460 c.c.).

L’accettazione può avvenire puramente e semplicemente oppure con beneficio di inventario (art. 470 c.c.); tuttavia, l’acquisto dell’eredità può anche avvenire per il tramite di fatti non negoziali, ovvero per effetto delle cc.dd. accettazioni ex lege (artt. 485 e 527 c.c.), le quali producono l’effetto dell’acquisto dello status di erede anche contro la volontà del chiamato.
Si dice, a tale riguardo, che nell’accettazione espressa la dichiarazione o manifestazione della volontà è diretta ed esplicita, mentre nell’accettazione tacita è indiretta ed implicita.

In particolare, sotto il profilo della sua natura giuridica, l’accettazione tacita si fa rientrare nella categoria dei cc.dd. negozi di attuazione, in contrapposizione alla categoria dei negozi di dichiarazione, i quali richiedono la forma espressa.
Peculiarità dei negozi di attuazione (il cui fondamento si rinviene all’art. 1327 c.c.) è costituita dalla circostanza che la volontà non viene manifestata, ma attuata ed è proprio dall’attuazione che la stessa si desume.

Il codice civile non fornisce alcuna definizione di accettazione tacita, consentendo soltanto di ricavare dalla formulazione dell’art. 476 c.c. quelli che sono i criteri dai quali desumere la volontà del chiamato, integranti il c.d. contegno concludente.
Ci si è in diverse occasioni interrogati se presupposto di una accettazione tacita debba essere una concreta ed effettiva volontà dell’agente (l’animus), ovvero se sia sufficiente che la volontà sia oggettivamente e necessariamente presupposta.
Così, alla tesi secondo cui occorre ricercare la precisa volontà di accettare nel chiamato che ha agito, si contrappone l’orientamento secondo cui la legge richiede solo che possa presupporsi necessariamente che quell’atto sia tale da implicare, per sua natura ed in base alla comune esperienza, la volontà di accettare l’eredità.

In adesione a questo secondo orientamento, pertanto, deve ritenersi che, se il chiamato compie degli atti che vanno al di là della propria funzione conservativa, non agisce più nella veste di chiamato, ma di erede, anche se non lo dichiara espressamente, non risultando necessario ricercare la sua effettiva volontà, anche se è necessario che lo stesso non ignori che l’attività che sta compiendo riguardi un bene ereditario.

Si ritiene che sia proprio quest’ultima la tesi che la S.C. ha deciso di prediligere nella sentenza in esame, attribuendo rilevanza soltanto al dato oggettivo dell’essere stato il chiamato all’eredità rinvenuto, in diverse occasioni, all’interno dell’abitazione del de cuius (senza che neppure si renda necessario fissarvi la residenza, atto sicuramente estrinsecante una manifestazione di volontà, seppure indiretta), nella sola consapevolezza che trattavasi di bene ereditario.

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