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Articolo 640 Codice di procedura civile

(R.D. 28 ottobre 1940, n. 1443)

[Aggiornato al 02/03/2024]

Rigetto della domanda

Dispositivo dell'art. 640 Codice di procedura civile

Il giudice, se ritiene insufficientemente giustificata la domanda, dispone che il cancelliere ne dia notizia al ricorrente, invitandolo a provvedere alla prova (1).

Se il ricorrente non risponde all'invito o non ritira il ricorso oppure se la domanda non è accoglibile, il giudice la rigetta con decreto motivato (2) (3).

Tale decreto non pregiudica la riproposizione della domanda, anche in via ordinaria.

Note

(1) La norma è espressione di una deroga al principio dell'onere della prova in senso sostanziale, in quanto l'incertezza sulla sussistenza o meno del diritto non si risolve a danno del ricorrente, ovvero del soggetto su cui grava l'onere di fornire la prova dell'esistenza del proprio diritto di credito. Infatti, la norma attribuisce al giudice il potere di invitare il creditore ricorrente ad integrare le prove, qualora le consideri inconcludenti e non persuasive, rigettando la domanda ove questi non ottemperi all'invito o non ritiri il ricorso.
(2) Diversi sono i motivi di rigetto della domanda di ingiunzione. Ad esempio il giudice può rigettare la domanda per mancanza di un presupposto o di un requisito specifico del procedimento, di una condizione dell'azione o di un presupposto per l'esistenza o la proseguibilità del processo. Ancora, il rigetto può avvenire per incompetenza dell'ufficio giudiziario adito, o in caso di mancata ottemperanza all'invito del giudice di integrare le prove. Infine, il rigetto si verifica per infondatezza della domanda. Pertanto, si può avere un rigetto per ragioni di rito o di merito. Si tratta comunque di una pronuncia che ha carattere meramente processuale, vista la riproponibilità della domanda ai sensi dell'ultimo comma.
(3) Il decreto con cui il giudice rigetta la domanda viene steso in calce al ricorso e il cancelliere ne dà comunicazione alla parte. Vista la sua inidoneità al giudicato, non è impugnabile, né col regolamento di competenza, né per cassazione ex art. 111 Cost..

Ratio Legis

La norma in esame sottende in senso atecnico i poteri istruttori del giudice, il quale può richiedere al ricorrente di integrare la documentazione prodotta qualora la ritenga insufficiente, persuasiva e concludente, oppure quando vi siano delle lacune nei documenti allegati da questi. Infatti, nella norma in esame vengono indicate le ipotesi che impediscono la pronuncia del decreto ingiuntivo.

Spiegazione dell'art. 640 Codice di procedura civile

La norma in esame si pone in deroga al principio generale dell’onere della prova in senso sostanziale, in quanto attribuisce al giudice il potere di invitare il ricorrente a fornire ovvero ad integrare le prove (a tale invito vi provvede il cancelliere a seguito del provvedimento del giudice).
Il giudice pronuncerà, con decreto motivato, il rigetto della domanda nel caso in cui il ricorrente non dovesse ottemperare a tale invito o non dovesse ritirare il ricorso, così come allorché dovesse reputare la prova offerta non concludente e persuasiva.

Secondo un’interpretazione estensiva l’istituto della integrazione, disciplinato da questa norma, potrebbe trovare applicazione in tutte le ipotesi di iniziale inaccoglibilità della domanda, che possano essere superate con un'idonea attività integrativa e che riguardino non solo l’aspetto strettamente probatorio, ma anche altre lacune, in particolare di tipo assertivo, facilmente verificabili anche in considerazione di una possibile formulazione sommaria del contenuto oggettivo del ricorso.
Favorevole a tale interpretazione estensiva è anche la dottrina, argomentando tra l’altro dalla considerazione secondo cui una restrizione del suo campo applicativo si porrebbe in contrasto con le evidenti esigenze di economia processuale, che rendono indubbiamente preferibile un recupero endoprocessuale di qualsiasi lacuna, anche in ottemperanza al principio di collaborazione desumibile dagli artt. 182 e 183, 3° co. c.p.c.

Il raffronto con il secondo comma della norma e con le possibili ragioni del rigetto della domanda impone di ritenere che il giudice, malgrado l’assenza di un'espressa previsione in tal senso, debba fissare al ricorrente un termine per provvedere alla sua integrazione, decorso il quale il ricorso monitorio andrà inevitabilmente rigettato.

La pronuncia di rigetto può essere fondata su ragioni di rito (es. ricorso sottoscritto da avvocato sfornito di procura) o su ragioni di merito (es. prescrizione del diritto).
Mentre non vi è alcun dubbio sul carattere meramente processuale della pronuncia di rigetto per motivi di rito, non vi è uniformità di vedute sul rigetto per motivi di merito.
Secondo la tesi prevalente, anche il provvedimento di rigetto per tali motivi deve qualificarsi come un provvedimento di contenuto processuale, su cui non può formarsi il giudicato, ritenendosi così di dover far salva la riproponibilità della domanda, sia in via monitoria che in via ordinaria, secondo quanto disposto dall’ultimo comma della presente norma (questa è la ragione per cui avverso il decreto di rigetto non è esperibile alcun mezzo di impugnazione).

Ci si è chiesti se il rigetto della domanda ingiuntiva possa essere anche il frutto di un'iniziativa difensiva del soggetto nei cui confronti viene richiesta la pronunzia del decreto ingiuntivo e se a questi possa essere riconosciuto il potere d'intervento nella fase strettamente monitoria.
E’ preferibile la tesi secondo cui in questa fase l'ingiungendo non può esercitare alcuna attività difensiva, laddove venga casualmente a conoscenza della sua pendenza; non gli può essere, dunque, consentito il deposito di memorie o documenti, né può chiedere di essere ascoltato.
Occorre sottolineare che il secondo comma prevede anche la possibilità che il ricorrente “ritiri” il ricorso (anche eventualmente dopo la richiesta d'integrazione prevista dal 1° co.).
In dottrina si è ritenuto di poter ricondurre tale fattispecie ad un caso di rinunzia agli atti ex art. 306 del c.p.c., con conseguente estinzione del procedimento monitorio, anche in assenza di un provvedimento formale del giudice adito, che potrebbe limitarsi a prendere atto dell'avvenuto ritiro del ricorso.

Il provvedimento di rigetto deve avere la forma del decreto e come tale, ex art. 135 del c.p.c., deve essere steso in calce al ricorso e motivato, seppur sommariamente.
Si tratta di una delle ipotesi eccezionali in cui, in deroga alla previsione generale contenuta nell'ultimo comma dell’art. 135 c.p.c., viene espressamente richiesta una motivazione per il decreto; in questo caso l'imposizione dell'obbligo di motivazione si spiega con la possibilità di riproporre la domanda, anche in via ordinaria, possibilità di cui il ricorrente si può meglio avvalere proprio tenendo conto del motivo, seppur enunciato sommariamente, che ha determinato il rigetto.

Massime relative all'art. 640 Codice di procedura civile

Cass. civ. n. 9216/2010

Il decreto con il quale il giudice respinge il ricorso per decreto ingiuntivo non essendo suscettibile di dar luogo a una pronuncia definitiva, poiché il terzo comma dell'art. 640 c.p.c. consente la riproposizione della domanda respinta, non è ricorribile per cassazione, neppure ai sensi dell'art. 111 Cost., in quanto non suscettibile di passare in cosa giudicata.

Cass. civ. n. 4510/2006

Il decreto ingiuntivo non opposto acquista autorità ed efficacia di cosa giudicata solo in relazione al diritto consacrato e non con riguardo alle domande o ai capi di domanda non accolti, atteso che la regola contenuta nell'art. 640, ult. comma, c.p.c. (secondo cui il rigetto della domanda di ingiunzione non pregiudica la riproposizione della domanda, anche in sede ordinaria) trova applicazione sia in caso di rigetto totale della domanda di ingiunzione che di rigetto parziale (e, quindi, di accoglimento solo in parte della richiesta). (Principio affermato dalla Sezioni Unite in sede di risoluzione di contrasto di giurisprudenza).

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Luigi F. chiede
giovedì 28/05/2015 - Veneto
“Ho avuto un dono di 9000 euro con assegno bancario da un mio amico, dopo 4 anni richiede la restituzione con lettera di avvocato, non ha nessun documento scritto, solo la copia dell'assegno: cosa devo fare? Grazie.”
Consulenza legale i 03/06/2015
Nella vicenda descritta un soggetto riceve una somma di denaro, asseritamente in donazione, mentre chi ha consegnato il denaro sostiene, dopo alcuni anni, che si trattava di un prestito e ne esige la restituzione.

In base ai principi generali del processo civile, grava su chi sostiene l'esistenza di un contratto di mutuo (artt. 1813-1822 c.c.) l'onere di provare in giudizio l'esistenza dell'obbligazione di restituzione (elemento costitutivo del contratto di mutuo ex art. 1813, v. Cass. civ., sez. II, 24.2.2004, n. 3642).
Tale prova può essere data in diversi modi:
- con una prova scritta, che però nel caso di specie manca;
- mediante testimonianza (artt. 2721-2726 c.c.) di persone attendibili che abbiano assistito all'accordo tra i due contraenti;
- per mezzo di presunzioni (art. 2729 c.c.), che possono essere validamente desunte solo sulla base d'una pluralità d'elementi di valutazione gravi, precisi e concordanti, nei quali il requisito della gravità è ravvisabile per il grado di convincimento che ciascuno di essi è idoneo a produrre (a tal fine, è necessario che l'esistenza del fatto ignoto sia allegato e dimostrato come dotato di ragionevole certezza, se pure probabilistica); il requisito della precisione impone che i fatti noti, dai quali muove il ragionamento probabilistico, e l'iter logico nel ragionamento stesso seguito non siano vaghi ma ben determinati nella loro realtà storica; infine, il requisito, unificante, della concordanza richiede che il fatto ignoto sia desunto - salvo l'eccezionale caso d'un singolo elemento di gravità e precisione tali da essere di per sé solo esaustivamente ed incontrovertibilmente significativo - da una pluralità di fatti noti gravi e precisi univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza.

Quindi, innanzitutto, per valutare le probabilità di successo dell'azione del presunto mutuante, si deve accertare se esistono prove testimoniali o presuntive sufficienti a sostenere le sue ragioni in giudizio.
Se non dovessero esistere, non potendosi provare l'esistenza di un mutuo, chi ha dato la somma soccomberà in giudizio e, volendo perseguire lo scopo di riottenere la somma, dovrà agire in base a diversa motivazione, dando comunque sempre dimostrazione di quanto afferma.

Chi ha ricevuto la somma di denaro, al contrario, se ha modo di provare che si trattò di donazione, può difendersi in giudizio con domanda riconvenzionale, chiedendo che sia sancito in sentenza che la dazione di denaro si poteva ricondurre ad un atto di liberalità. In particolare, la parte dovrà provare il c.d. animus donandi, cioè l'intenzione del donante di compiere un atto gratuito, a solo scopo di liberalità, a vantaggio dell'amico.
In questo modo, ottenuto il provvedimento favorevole, la controparte non potrebbe più cercare di configurare in modo diverso la consegna del denaro.

Nel caso di specie, una difficoltà nel provare l'esistenza della donazione potrebbe consistere nel difetto di forma solenne dell'atto, trattandosi di somma - 9.000 euro - che potrebbe essere considerata di non modico valore (art. 783 del c.c.: "La donazione di modico valore che ha per oggetto beni mobili è valida anche se manca l'atto pubblico, purché vi sia stata la tradizione"): di regola, infatti, la donazione richiede la forma dell'atto pubblico (art. 782 del c.c.).
Tale ostacolo potrebbe essere superato cercando di configurare una donazione indiretta del denaro per l'acquisto di un bene particolare (es. l'amico ha donato i soldi per comprare un'automobile).

In conclusione, allo stato attuale, chi ha ricevuto la somma può difendersi stragiudizialmente opponendo la donazione: tuttavia, l'amico ha diritto di convenirlo in giudizio, giudizio nel quale troveranno applicazione le osservazioni sopra riportate.