L'espressione "a regole generali" anziché "alle regole generali " mi è sembrata poi preferibile per la sua maggiore ampiezza di significato. Poiché, poi, la norma non riguarda la interpretazione estensiva, ho ritenuto più appropriato chiarire che le leggi formanti eccezioni a regole generali
, e sempre al fine di ottenere maggiore chiarezza ho sostituito "considerati" ad "espressi", potendo quest'ultima parola far pensare che si debba aver riguardo solamente ai casi menzionati espressamente nella norma da applicare".
Nella Relazione al Re lo stesso Guardasigilli aggiunge: "nell'art. 14, tenendo conto delle osservazioni fatte da alcuni componenti della Commissione parlamentare, ho soppresso l'accenno alle leggi "che restringono l'esercizio dei diritti". Mi è parso, dopo maturo esame, che tale formula potesse essere giudicata non opportuna o superflua. Infatti essa sembra riecheggiare vecchie concezioni giusnaturalistiche, oramai definitivamente superate, e incompatibili coi nuovi orientamenti politici.
D'altro canto, le leggi che restringono il contenuto e l'esercizio dei diritti sono necessariamente leggi eccezionali, in quanto si contrappongono alle leggi generali che determinano il contenuto e l'esercizio dei diritti e quindi non possono applicarsi analogicamente secondo il principio già enunciato dall'art. 14. Se poi la nuova legge, apparentemente limitatrice, non pone semplicemente limiti esterni, ma crea una nuova configurazione più limitata del diritto subiettivo, siamo evidentemente fuori della sfera di applicazione dell'art. 14".
Il principio dell'art. 14 era già noto al diritto classico, il quale ammoniva:
quod contra, rationem iuris receptum est, non est producendum ad consequentias.
Esso segna la più sostanziale differenza nel sistema di interpretazione delle leggi. È ben naturale che non tutti i rami del diritto possono essere soggetti agli stessi criteri interpretativi. Così mentre per il diritto civile è ammessa l'interpretazione evolutiva, alla quale è dovuto in gran parte il progresso del diritto privato, la stessa non è tollerabile in quasi tutto il diritto processuale, dove le forme hanno un rigore che non consente evoluzione.
Né la stessa forma di interpretazione può servire nello stesso modo per il diritto privato e per il diritto pubblico e in quest'ultimo per le varie sue branche, che richiedono sistemi diversi di interpretazione, più rigoroso nel penale e nel processuale, meno rigido nell'amministrativo e nel costituzionale, dove predomina l'elemento politico e il bisogno dell'adattabilità della norma alle esigenze del momento.
Ad eliminare difficoltà nell'intendere l'art. 14 va premesso che la non applicazione delle norme ivi contemplate oltre i casi e i tempi in esso considerati, concerne la interpretazione analogica e
non quella estensiva. L'interpretazione estensiva, infatti, non è altro che il riconoscimento degli esatti limiti d'attività della legge, i quali di primo impatto possono apparire più limitati.
L'interprete non aggiunge nulla alla norma, ma ne trae il significato integrale; di conseguenza, "i casi e i tempi", ai quali egli la applica, erano già considerati nella legge eccezionale. Se egli rifiutasse l'interpretazione estensiva di detta legge, ne restringerebbe arbitrariamente la portata. Va notato che la sostituzione delle parole "non si applicano" alle altre "non si estendono" del vecchio testo, è stata fatta appunto per
eliminare ogni dubbio circa la possibilità della interpretazione estensiva delle leggi menzionate nell'art. 14.
Il principio che la legge penale non si applica se non nei casi e nei tempi previsti nella legge stessa è affermato dall'art. 1 del codice penale, oltre che dall'articolo in esame. Il principio è stato ammesso senza eccezioni anche per quanto riguarda le misure di sicurezza.
Esso si esprime con il noto aforisma:
nullum crimen sine poena, nulla poena sine lege. La dottrina e la giurisprudenza italiana ritengono assoluto tale principio e non gli consentono alcuna eccezione.
Il principio non è stato sempre riconosciuto e nel periodo romano e nel periodo medievale non si ebbe mai un divieto dell'analogia in materia penale, fatta eccezione del diritto inglese dove fin dal 1215 la
Magna Charta, all'art. 39, riconosceva che alcuno non potesse essere imprigionato o soggetto a misure penali se non per effetto di legge e con regolare giudizio.
Bisogna giungere al Montesquieu, alla
Petition of rights degli Stati Uniti (1774), al codice austriaco di Giuseppe II (1787) e alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789) per avere la proclamazione del principio, osservato poi religiosamente fino ai nostri giorni.
Il primo a far breccia sul dogma fu il codice danese del 1866, la cui norma fu poi ripetuta in quello del 1930, secondo la quale la legge penale punisce anche un'azione che sia interamente assimilabile ad un atto punibile. Più tardi la Russia sovietica con il codice penale del 1922 proclamò apertamente il principio dell'analogia in materia penale.
Dopo la Russia, anche la Germania introdusse nel suo codice penale una disposizione alla stregua della quale era punibile anche chi compisse un'azione meritevole di punizione "secondo il concetto fondamentale della legge penale o secondo il sano sentimento del popolo".
Per intendere storicamente il problema, bisogna risalire ai principi generali della difesa sociale contro il pericolo criminale.
Coloro che ritengono che il diritto penale possa prescindere dal concetto di colpa e di pena e che esso sia un ordinamento di difesa sociale contro il fenomeno antropologico del delitto, non trovano logico che il fatto criminoso possa restare indifferente all'ordine sociale solo perché il legislatore non l'ha previsto.
Coloro, invece, che si mantengono fedeli alla concezione etico-giuridica del diritto penale, ne respingono l'applicazione analogica, sopratutto per la difesa della libertà individuale, che da essa è minacciata. È significativo il fatto che durante i lavori preparatori del nuovo codice civile in nessuna Commissione da nessun commissario fu proposto di eliminare o attenuare il principio affermato dall'art. 14 per quanto concerne le leggi penali.
Non è facile indicare con esattezza i caratteri differenziatori della legge eccezionale. Normalmente si designano con questo nome quelle disposizioni che importano una deroga a principi generali. Ma una regola più ristretta che riconosca effetti giuridici ad un determinato negozio, che per i principi generali non sarebbe vietato, non è per ciò solo una legge eccezionale. Per conoscere la natura di quest'ultima occorre, dunque, mettere a confronto il principio generale con la pretesa norma derogatoria, e se si riconosce che questa non l'attua in parte ma la contraddice, si deve ritenere che la norma sia eccezionale.
Se la contraddice solo parzialmente, la norma può essere in parte eccezionale, in parte no; ed è solo per la prima parte che non può avere applicazione analogica. È affidato all'interprete questa indagine, per compiere la quale è necessario che egli esamini il sistema generale legislativo, che contiene il principio generale cui la norma particolare avrebbe apportato una deroga, e, osservando se per effetto della disposizione particolare il principio generale divenga inefficace o non operante, giudichi che si tratti di una norma eccezionale.