Il caso trae origine dal testamento olografo redatto da un uomo, con il quale dichiarava di voler lasciare, in caso di sua dipartita, tutti i suoi beni, mobili e immobili, alla moglie, ad eccezione di un’ unica proprietà lasciata alle due figlie.
Ebbene, quest’ultime, alla morte del padre, decidevano di convenire la madre in giudizio ai fini della determinazione delle quote dei condividenti, in conformità alle disposizioni testamentarie e, in subordine, in caso di lesione della legittima, chiedendo la riduzione ai sensi dell’art. 554 c.c. .
II Tribunale adito, nel rigettare tali domande, rilevava che le due attrici erano destinatarie di un legato in sostituzione di legittima, al quale non avevano rinunciato e pertanto si era costituita la comunione dei beni tra l’unica erede (la moglie) e le due legatarie.
Della stessa opinione anche la Corte di appello adita dalle donne, la quale rigettava il gravame, ritenendo che l’unico lascito testamentario generico e omnicomprensivo era rivolto alla moglie, mentre alle figlie era stato lasciato un unico cespite.
La Suprema Corte chiamata a pronunciarsi sul caso, ha ritenuto che la corte territoriale aveva adeguatamente interpretato la volontà testamentaria del de cuius, il quale volendo lasciare un unico e determinato bene alle figlie, prima ancora che esse divenissero eredi, aveva manifestato la chiara volontà di lasciare tutti i restanti beni alla moglie, rendendola cosi destinataria dell’intero patrimonio ed unica erede.
Dunque, secondo gli Ermellini, l’interpretazione del testamento era avvenuta in conformità al principio di cui all’art. 1362 c.c., secondo cui bisogna accertare quale sia stata l’effettiva volontà del testatore non limitandosi al senso letterale delle parole e rispettando sempre il principio di conservazione del testamento.