Nel caso esaminato dalla Cassazione, una donna aveva agito in giudizio nei confronti dell’ospedale di Padova, al fine di ottenere la condanna di quest’ultimo al risarcimento dei danni subiti a seguito della condotta colposa dei medici dell’ospedale stesso, in occasione di un intervento chirurgico ad una gamba, al quale la stessa era stata sottoposta.
Nel corso dell’operazione, infatti, era insorta “un’ischemia acuta all’arto inferiore”, che aveva reso necessario un secondo intervento chirurgico.
Durante il decorso post-operatorio, erano sorte ulteriori complicanze, che avevano costretto la donna a sottoporsi ad un terzo intervento, che questa volta era stato eseguito presso l’ospedale di Bologna.
In relazione a tali circostanze, la donna aveva, dunque, agito in giudizio, chiedendo il risarcimento del danno biologico scaturito dal primo intervento chirurgico.
Il Tribunale di Padova, pronunciatosi in primo grado, aveva accertato l’esclusiva responsabilità dell’azienda sanitaria nella causazione delle lesioni subite dalla paziente, condannando l’ospedale al risarcimento dei danni, quantificati in circa 37.000 euro.
La donna, tuttavia, aveva deciso di impugnare la sentenza, ritenendo che il danno biologico non fosse stato correttamente liquidato.
L’azienda sanitaria proponeva, a sua volta, appello avverso la sentenza in questione, evidenziando che il giudice di primo grado avrebbe affermato la responsabilità della stessa sulla base degli accertamenti effettuati dal consulente tecnico d’ufficio, il quale, tuttavia, si era avvalso di un proprio consulente ortopedico, senza previa autorizzazione del Tribunale e “valorizzando un parere espresso solo verbalmente”.
In ogni caso, secondo l’ospedale, il consulente era giunto ad affermare la responsabilità dei sanitari senza considerare che le complicazioni subite dalla paziente non erano né prevedibili, né evitabili.
Secondo l’azienda sanitaria, dunque, “neppure una condotta medica maggiormente prudente, diligente e perita” avrebbe potuto evitare le complicazioni insorte a seguito dell’intervento.
La Corte di Cassazione riteneva di dover dar ragione alla paziente, accogliendo la relativa impugnazione e rigettando quella proposta dall’ospedale.
Osservava la Cassazione, in proposito, che, in tema di responsabilità della struttura sanitaria, è il paziente che agisce per il risarcimento del danno a dover “provare il nesso di causalità tra l'aggravamento della patologia (o l'insorgenza di una nuova malattia) e l'azione o l'omissione dei sanitari”.
In questo caso, la struttura sanitaria, per andare esente da responsabilità, dovrà, a sua volta, dimostrare “l'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l'inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l'ordinaria diligenza”.
Ebbene, nel caso di specie, la Cassazione evidenziava che la paziente aveva certamente dimostrato il nesso di causalità tra “il ricovero ospedaliero, l’intervento chirurgico e la patologia conseguente”, mentre, al contrario, l’azienda sanitaria non aveva in alcun modo dimostrato che l'inesatto adempimento era stato determinato “da un impedimento imprevedibile o evitabile con l'ordinaria diligenza”.
L’azienda sanitaria, infatti, si era limitata a rilevare genericamente che la complicanza patita dalla paziente era stata “imprevedibile ed inevitabile”, senza fornire alcun supporto probatorio a tale affermazione.
Precisava la Cassazione, peraltro, che il consulente tecnico, sentito in corso di causa, aveva evidenziato che la complicanza in questione “era di certo evitabile alla luce della ‘migliore scienza ed esperienza del momento’”.
Secondo la Cassazione, inoltre, il Tribunale di primo grado aveva erroneamente quantificato il danno subito dalla paziente.
Evidenziava la Cassazione, sul punto, che, nel caso di specie, il Tribunale di primo grado non aveva correttamente calcolato le percentuali di invalidità effettivamente patite dalla paziente e riconducibili a colpa dei sanitari.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte d’appello di Venezia accoglieva l’appello proposto dalla paziente, liquidando in oltre 75.000 euro i danni dalla stessa subiti.