La questione sottoposta al vaglio degli Ermellini era nata dopo che, all’esito di entrambi i gradi del giudizio di merito, era stata ritenuta insufficiente la prova fornita dal datore di lavoro, in ordine all’addebito disciplinare da lui contestato ad una dipendente, in relazione alla supposta fruizione abusiva dei permessi ex art. 33 della legge 104.
Secondo la Corte d’Appello, in particolare, la relazione dell’agenzia investigativa da cui l’azienda aveva dedotto che la lavoratrice non avesse effettivamente prestato assistenza alla madre disabile, durante il periodo di fruizione di detti permessi, forniva un quadro assolutamente lacunoso riguardo alla condotta tenuta dalla donna, non potendo, così, ritenere dimostrato che essa avesse svolto delle attività incompatibili con l’assistenza.
Rimasta soccombente, l’azienda datrice di lavoro ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione, eccependo, essenzialmente, la violazione dell’art. 2697 del c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché dell’art. 33 della legge 104.
Secondo la ricorrente, infatti, la Corte d’Appello aveva errato, non solo nell’aver ritenuto inidonee le prove da essa fornite, ma anche nell’aver disatteso la prova costituita dalle ammissioni della stessa lavoratrice, la quale aveva affermato di essere sempre stata “a disposizione della madre”, nonché, infine, nell’aver ritenuto che le prove fornite non fossero idonee ad invertire l’onere della prova.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Gli Ermellini hanno, in particolare, evidenziato come la Corte territoriale abbia valutato il caso di specie alla luce della costante giurisprudenza di legittimità in materia di nesso causale tra fruizione dei permessi ex lege 104 e assistenza, rilevando come, in base ad essa, per ritenere sussistente un abuso o un uso improprio di detti permessi, si faccia riferimento ad ipotesi ben diverse da quella in esame, in cui vi è sempre la prova, diretta o indiretta, dell’assenza di assistenza o dello svolgimento, da parte del beneficiario, di attività incompatibili con delle prestazioni assistenziali (cfr. ex multis Cass. Lav., 19850/2019; Cass. Lav., n. 17968/2016).
La stessa Cassazione ha, difatti, già avuto modo di chiarire che “soltanto ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo che genera la responsabilità del dipendente” (Cass. Lav., n. 19580/2019).
Orbene, i Giudici di legittimità hanno ritenuto che la Corte territoriale, nel dar conto della giurisprudenza di legittimità, la quale richiede che i permessi vengano fruiti in coerenza con la loro funzione, nonché in presenza di un nesso causale con l’attività di assistenza, abbia applicato correttamente le regole di giudizio che presiedono tale materia, escludendo il difetto di buona fede e di disvalore sociale, connesso all’abusivo esercizio del permesso da legge 104, atteso che, a suo giudizio, la lavoratrice non aveva approfittato del permesso per svolgere delle attività rispondenti ad un proprio esclusivo interesse.