La questione sottoposta all’esame degli Ermellini era nata in seguito alla domanda di risarcimento, avanzata da un agente di polizia municipale, il quale lamentava di aver subito dei danni di natura biologica, psichica e morale, nonché alla propria vita di relazione, in seguito ai comportamenti di mobbing posti in essere nei suoi riguardi da colleghi e superiori, i quali si erano sostanziati, a suo avviso, in una vera e propria persecuzione maniacale, posta in essere attraverso una generale intolleranza nei suoi confronti, nonché per mezzo di controlli troppo assidui, di iniziative disciplinari pretestuose e di condotte eccessivamente aggressive.
Nonostante il loro iniziale accoglimento, all’esito del giudizio di primo grado, le istanze attoree venivano, poi, rigettate dalla Corte d’Appello, secondo la quale quanto affermato dai testimoni sentiti nel corso del giudizio non aveva confermato i fatti posti, dal lavoratore, a sostegno delle proprie doglianze.
Avverso tale sentenza, il lavoratore ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione, eccependo, in sintesi, la violazione e la falsa applicazione delle norme di diritto in materia di mobbing, nonché l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, con particolare riferimento alla negata sussistenza del mobbing, e, ancora, un vizio di motivazione sotto il profilo dell’erronea valutazione del materiale probatorio.
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, considerato che, a suo parere, il ricorrente, pur avendo denunciato, nella rubrica, una violazione o falsa applicazione di norme di diritto in materia di mobbing, aveva eccepito, in realtà, l’erroneità del giudizio espresso sul materiale probatorio offerto, giudizio, questo, che non può essere rivisto in sede di legittimità.
Poste tali premesse, gli Ermellini hanno, comunque, evidenziato come la Corte d’Appello si sia conformata alla nozione di mobbing espressa dalla costante giurisprudenza di legittimità, in base alla quale “ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi” (cfr. ex multis Cass. Lav., n. 32151/2018; Cass. Lav., n. 12437/2018; Cass. Lav., n. 26684/2017).
In ossequio a tale statuizione e valutando puntualmente le risultanze di causa, i giudici di merito hanno, quindi, correttamente ritenuto che, nel caso de quo, per quanto fosse emersa la sussistenza di una situazione conflittuale tra il lavoratore ed il suo superiore, non ricorresse un comportamento effettivamente persecutorio, avendo il superiore agito nell’ambito dei poteri conferitigli dall’ufficio ricoperto, e che, in molte occasioni, i suoi interventi erano stati indirizzati anche nei confronti di altri agenti.
La Corte territoriale non ha, quindi, errato nel ritenere insufficiente la prova fornita dal lavoratore, su cui incombeva l’onere di dimostrare che il comportamento posto in essere, ai suoi danni, dai superiori gerarchici, fosse stato intenzionalmente ed ingiustificatamente ostile, nonché come lo stesso fosse consistito in plurime condotte connotate da un’oggettiva prevaricazione e vessatorietà, essendo, a tal fine, irrilevanti le mere posizioni divergenti o conflittuali connesse alle ordinarie dinamiche relazionali all’interno dell’ambiente lavorativo.