La questione sottoposta al vaglio degli Ermellini era nata in seguito alla condanna per il reato di calunnia, inflitta ad un uomo, all’esito di entrambi i gradi del giudizio di merito. All’imputato era, infatti, stato contestato di aver accusato la moglie, con cui era in corso un procedimento di separazione giudiziale, del reato di tentato omicidio, mediante la somministrazione, in due occasioni, di caffè avvelenato, pur sapendola innocente, posto che lo stesso aveva taciuto l’esito negativo degli esami tossicologici a cui si era sottoposto.
Avverso la sentenza emessa dalla Corte d’Appello, l’uomo ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando una violazione di legge in relazione all’art. 368 del c.p. Secondo il ricorrente, infatti, i giudici di merito avevano errato nel ritenere sussistente tale reato anche in mancanza di dolo, considerato che, dal contenuto della memoria depositata dal giudice civile, traspariva, a suo avviso, la sua intima e radicata convinzione circa la colpevolezza della moglie rispetto ai presunti episodi di avvelenamento. Parimenti, secondo l’imputato, la Corte territoriale non aveva riconosciuto il suo stato d’animo compulsivo, esasperato dall’estenuante conflitto giudiziario con la moglie, tale da escludere la cosciente volontà di incolparla. Egli, infatti, sosteneva di aver travisato la realtà dei fatti, essendosi sentito male subito dopo l’assunzione delle bevande offertigli dalla moglie.
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, giudicando generici e manifestamente infondati i motivi di doglianza proposti.
Secondo gli Ermellini le conclusioni adottate dalla Corte d’Appello risultano corrette, in quanto perfettamente coerenti con i principi di diritto, più volte affermati dalla giurisprudenza di legittimità, in materia di accertamento della sussistenza dell’elemento psicologico del reato di calunnia. La stessa Cassazione ha, infatti, più volte affermato che “la consapevolezza del denunciante in merito all’innocenza della persona accusata può escludersi solo quando la supposta illiceità del fatto denunciato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi, connotati da un riconoscibile margine di serietà, e tali da ingenerare concretamente la presenza di condivisibili dubbi da parte di una persona di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza” (Cass. Pen., n. 46205/2009; Cass. Pen., n. 27846/2009).
Da tale principio di diritto appare chiaramente come la giurisprudenza della Suprema Corte abbia tracciato una netta linea di discrimine, stabilendo che se l’erroneo convincimento sulla colpevolezza dell’accusato riguarda fatti storici concreti, suscettibili di verifica o, comunque, di una corretta rappresentazione nella denuncia, l’omissione di tale verifica o rappresentazione connota effettivamente in senso doloso la formulazione di un’accusa espressa in termini perentori. Ciò comporta, dunque, che, soltanto qualora l’erroneo convincimento riguardi i profili valutativi della condotta oggetto di accusa, in sé non descritta in termini difformi dalla realtà, l’attribuzione dell’illecito potrebbe risultare inidonea, nella misura in cui non risulti fraudolenta o consapevolmente forzata, ad integrare il dolo tipico del delitto di calunnia.
Orbene, analizzando il caso di specie alla luce di tali considerazioni, la Cassazione non ha potuto far altro che evidenziare come il silenzio dell’imputato in ordine alla negatività degli esami tossicologici abbia correttamente spinto i giudici di merito ad escludere che il suo erroneo convincimento riguardasse profili meramente valutativi della condotta oggetto di accusa, risultando, pertanto, integrato il dolo di calunnia.