Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’Appello di Roma aveva confermato la sentenza di primo grado, che condannava padre e figlio (in qualità, rispettivamente, di proprietario e comodatario di un bene immobile) per il reato di omicidio colposo (art. 589 del c.p.), commesso nei confronti dei due inquilini dell’immobile concesso in locazione.
In particolare, secondo la ricostruzione offerta dal figlio, il padre, proprietario dell’immobile, aveva concesso il bene in comodato al figlio e successivamente aveva dato lo stesso in locazione ad altri due soggetti, deceduti a causa del malfunzionamento della caldaia.
Nello specifico, tale immobile, oltre a essere dotato di caldaia non a norma di legge, era “privo di aperture di ventilazione” e caratterizzato da un sistema di scarico dei fumi di “geometria inadeguata e tale da provocare reflusso di gas tossico”.
La Corte d’Appello, dunque, aveva condannato anche il comodatario per omicidio colposo, in quanto “dal contratto di comodato intervenuto tra padre e figlio discende una inequivocabile posizione di garanzia… quel comodato era il presupposto logico e giuridico per il successivo contratto di locazione tra le povere vittime e l’odierno prevenuto i cui canoni di locazione confluivano nel patrimonio dell’odierno imputato”.
Il condannato, ritenendo di non rivestire alcuna “posizione di garanzia”, proponeva ricorso in Cassazione, evidenziando come la responsabilità dei fatti accaduti dovesse essere riconosciuta esclusivamente in capo al padre, il quale, in qualità di proprietario dell’immobile, aveva continuato a gestire e amministrare il medesimo, anche dopo la stipula del contratto di comodato con il figlio.
Secondo il ricorrente, dunque, era il padre ad avere il compito di controllare che non vi fossero fonti di pericolo, non essendovi stata alcuna “cooperazione colposa nel delitto, che presuppone la reciproca consapevolezza da parte dei concorrenti della convergenza delle relative condotte verso un identico scopo”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di dover aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, il quale, al momento della morte delle vittime “risultava comodatario dell’immobile (…) nonché cointestatario, unitamente al padre, del conto corrente sul quale confluivano gli accrediti dei canoni di locazione, dunque fruitore del reddito prodotto dall’immobile”.
Secondo la Corte, infatti, anche il comodatario doveva ritenersi responsabile, in quanto “in base all’art. 1808 del c.c., gravano sul comodatario gli obblighi di manutenzione ordinaria dell’immobile” e “in base all’art. 1804 del c.c., il comodatario è tenuto a custodire il bene con la diligenza del buon padre di famiglia”.
Poiché, peraltro, dagli atti di causa era emerso che il contratto di locazione era stato stipulato non dal padre ma dal figlio-comodatario stesso, la Cassazione evidenziava come il comodatario avesse un obbligo di custodia del bene immobile concesso in locazione.
Precisava la Corte, infatti, come tale rapporto di custodia richieda la sussistenza di un “effettivo potere sulla cosa e cioè la disponibilità giuridica e materiale della stessa che comporti il potere–dovere di intervento su di essa”.
Tale potere, inoltre, secondo la Corte, “compete al proprietario o anche al possessore o detentore… ove la custodia finisca per fare capo a più soggetti a pari titolo, o a titoli diversi, che importino l’attuale coesistenza di poteri di gestione e di ingerenza sul bene”, con la conseguenza che “la responsabilità in via solidale è a carico di tutti, rimanendo, invece, in capo al proprietario la responsabilità dei danni arrecati a terzi dalla strutture murarie e dagli impianti in esse conglobati, delle quali conserva la disponibilità giuridica, e, quindi, la custodia”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal figlio-comodatario dell’immobile, condannando il medesimo al pagamento delle spese processuali.