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Legittima la benedizione di Pasqua nelle scuole

Legittima la benedizione di Pasqua nelle scuole
Secondo la Cassazione è possibile procedere alla benedizione nelle scuole, purchè il rito sia effettuato alla sola presenza di chi vi acconsente e fuori dall'orario scolastico ufficiale.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1388 del 27 marzo 2017, si è occupata di un caso particolarmente interessante nell’imminenza del periodo Pasquale.

Nel caso esaminato dal Consiglio di Stato, alcuni insegnanti e genitori di alunni di una scuola avevano impugnato il provvedimento con cui il consiglio d’istituto aveva “concesso l'apertura dei suoi locali scolastici perché si svolgessero le benedizioni pasquali richieste dai parroci del territorio, raccomandando che queste fossero effettuate in orario extra-scolastico e che gli alunni venissero accompagnati dai familiari, o comunque da un adulto col compito di sorvegliarli”.

I ricorrenti, in particolare, evidenziavano come il provvedimento si ponesse in contrasto con il principio di laicità e di aconfessionalità della scuola pubblica, con conseguente violazione degli artt. 2, [n3cost]], 7, 19 e 21 della Costituzione, nonché degli artt. 7 e 10 del d. lgs. n. 297 del 1994 (Testo Unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado).

Secondo i ricorrenti, in particolare, “la benedizione pasquale cattolica non rientrerebbe né nelle varie forme di attività scolastica (…) né nelle iniziative "complementari" ed "integrative" previste dal D.P.R. n. 567 del 1996”, con la conseguenza che “il suo svolgimento esulerebbe dalle competenze dell'istituzione scolastica, alla quale competerebbero le sole attività suscettibili di far parte dell'offerta formativa affidatale”.

A sostegno delle loro ragioni, i ricorrenti osservavano, inoltre, che la pratica religiosa si svolge “al di fuori dell'orario scolastico e senza obbligo di partecipazione degli alunni” e che, consentire la benedizione in questione, avrebbe portato “a condizionare in modo significativo soggetti deboli come gli studenti, senza tenere conto della necessità di evitare qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione (…) e di tutelare diritti fondamentali quali quello alla non discriminazione (artt. 2 e 3 Cost.), alla libertà religiosa (art. 19 Cost.) e di pensiero (art. 21 Cost.)”.

Il ricorso era stato accolto in primo grado, dal momento che il Tribunale Amministrativo aveva affermato “sulla premessa del "principio costituzionale della laicità o non-confessionalità dello Stato"”, e della "equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose", che "non v'è spazio per riti religiosi - riservati per loro natura alla sfera individuale dei consociati -, mentre ben possono esservi occasioni di incontro che su temi anche religiosi consentano confronti e riflessioni in ordine a questioni di rilevanza sociale, culturale e civile, idonei a favorire lo sviluppo delle capacità intellettuali e morali della popolazione, soprattutto scolastica, senza al contempo sacrificare la libertà religiosa o comprimere le relative scelte’”.

Ritenendo la decisione ingiusta, dunque, il Ministero dell'Istruzione e la scuola interessata avevano proposto appello avverso tale decisione, rivolgendosi al Consiglio di Stato.

Secondo i ricorrenti, in particolare, “la concessione in uso dei locali fuori dell'orario scolastico, per lo svolgimento di un atto di culto cui partecipare liberamente e facoltativamente, non sarebbe sufficiente a far venir meno la aconfessionalità della scuola, o a determinare conseguenze discriminatorie nei confronti di altre confessioni religiose, o tantomeno a determinare una lesione dei diritti di libertà di religione, ovvero di non credere in alcuna religione”.

Il Consiglio di Stato riteneva, in effetti, di dover dar ragione ai ricorrenti, annullando la sentenza di primo grado.

Osservava il Consiglio, in particolare, che “la benedizione pasquale è un rito religioso, rivolto all'incontro tra chi svolge il ministero pastorale e le famiglie o le altre comunità, nei luoghi in cui queste risiedono, caratterizzato dalla brevità e dalla semplicità, senza necessità di particolari preparativi” e che “il fine di tale rito, per chi ne condivide l'intimo significato e ne accetta la pratica, è anche quello di ricordare la presenza di Dio nei luoghi dove si vive o si lavora, sottolineandone la stretta correlazione con le persone che a tale titolo li frequentano”.

Questo rito, dunque, secondo il Consiglio, “per chi intende praticarlo, ha senso in quanto celebrato in un luogo determinato, mentre non avrebbe senso (o, comunque, il medesimo senso) se celebrato altrove”.

Pertanto, secondo il giudice amministrativo, era legittimo chiedersi che si procedesse alla benedizione nelle scuole, “alla presenza di chi vi acconsente e fuori dall'orario scolastico”, dal momento che ciò non potevaminimamente ledere, neppure indirettamente, il pensiero o il sentimento, religioso o no, di chiunque altro che, pur appartenente alla medesima comunità, non condivida quel medesimo pensiero e che dunque, non partecipando all'evento”, non può in alcun modosentirsi leso da esso”.

Alla luce di tali considerazioni, il Consiglio di Stato accoglieva l’appello proposto dai ricorrenti, rigettando il ricorso dagli stessi proposto in primo grado.


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