È una sentenza interessante perché tocca due argomenti molto cari ai lavoratori: la reintegrazione nelle mansioni svolte precedentemente e il risarcimento del danno da dequalificazione professionale.
La Suprema Corte ha analizzato il caso di una dipendente che ha subito un demansionamento nel 2013, ma su cui i giudici si sono pronunciati soltanto dopo il 2015.
La Cassazione cosa ha stabilito in questa sentenza?
Innanzitutto, occorre sapere che l’art. 2103 c.c. disciplina l’ipotesi di attribuzione del lavoratore a mansioni diverse. In generale, il demansionamento si ha quando il datore assegna il lavoratore a mansioni “inferiori”.
Secondo l’art. 2103 c.c., nella sua formulazione precedente al Jobs Act, il datore poteva adibire il dipendente a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. In pratica, fino a giugno 2015, il demansionamento era considerato illegittimo se realizzato in violazione del principio dell’equivalenza.
Il Jobs Act ha sostituito la norma codicistica e, dal 25 giugno 2015, l’art. 2103 c.c. stabilisce che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. Dunque, non si fa più riferimento alle mansioni equivalenti, come in passato.
È una modifica rilevante perché le nuove mansioni, che in passato potevano essere qualificate come “inferiori”, potrebbero ora non essere più considerate “inferiori” alla luce della nuova formulazione dell’art. 2103 c.c.
Peraltro, il nuovo art. 2103 c.c. riconosce al datore la facoltà di demansionare il lavoratore, anche senza il suo consenso, in una serie di particolari ipotesi (ad esempio, quando la modifica di assetti organizzativi aziendali incide sulla posizione del lavoratore oppure nei casi disciplinati e consentiti dalla contrattazione collettiva).
Che cosa ha detto la Corte di Cassazione?
La vicenda riguarda un demansionamento avvenuto nel dicembre 2013. Il giudice di primo grado ordinava al datore la reintegra della dipendente nelle mansioni svolte fino al 2013 o in mansioni equivalenti e lo condannava al risarcimento del danno. Il risarcimento veniva liquidato in una somma pari al 50% della retribuzione globale di fatto mensile percepita dalla dipendente nel dicembre 2013, moltiplicata per il numero dei mesi tra dicembre 2013 e la data della sentenza (ossia, giugno 2017).
Poi, a seguito dell’appello del datore, il giudice di secondo grado ha modificato in parte la sentenza di primo grado. La Corte d’Appello rigettava la domanda di reintegrazione nelle precedenti mansioni e condannava sì il datore al risarcimento dei danni, ma liquidando una somma pari al 50% della retribuzione globale di fatto percepita per l’effettivo periodo di demansionamento da dicembre 2013 a giugno 2015 (cioè, fino all’entrata in vigore del Jobs Act).
La Cassazione ha precisato che, in tema di demansionamento, la condotta del datore dà luogo ad un illecito permanente. Infatti, il demansionamento illegittimo comporta un’iniziale situazione illecita (ledendo il diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro) e tale situazione poi viene mantenuta per una scelta propria e volontaria del datore.
Di conseguenza, anche se l’atto illecito del datore è stato realizzato nel 2013, si applica la nuova disciplina introdotta dal Jobs Act nel 2015. Quindi, bisogna dividere la posizione della dipendente tra prima e dopo la data di entrata in vigore del nuovo art. 2103 c.c.: per la frazione di condotta tenuta sotto la vigenza del nuovo art. 2103 c.c., questo trova applicazione.
Peraltro, nella vicenda concreta, le nuove mansioni attribuite alla dipendente, che in passato erano qualificabili come “inferiori”, sono ora riconducibili al livello di inquadramento di appartenenza. Dunque, non può esserci la reintegrazione nelle mansioni svolte fino al 2013, perché ormai le successive sono da ritenere lecitamente assegnate da giugno 2015.