Il caso sottoposto all’esame della Cassazione ha visto come protagonista un lavoratore dipendente, che aveva agito in giudizio nei confronti della propria datrice di lavoro, al fine di veder condannata la medesima al risarcimento del danno non patrimoniale subito a seguito dell’attribuzione di mansioni inferiori rispetto a quelle contrattualmente stabilite.
La domanda risarcitoria era stata accolta sia in primo che in secondo grado, con la conseguenza che la società aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo la ricorrente, in particolare, la Corte d’appello non avrebbe dato corretta applicazione all’art. 2103 c.c., non avendo la stessa proceduto “ad alcuna comparazione tra la declaratoria della categoria di appartenenza del dipendente e le mansioni cui egli è stato adibito”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dalla datrice di lavoro, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Osservava la Cassazione, infatti, che i giudici di secondo grado avevano motivato adeguatamente la loro decisione, basando la stessa sugli esiti degli accertamenti effettuati in corso di causa.
Nello specifico, la Cassazione evidenziava come la Corte d’appello avesse, del tutto adeguatamente, reputato che il danno non patrimoniale ricomprendesse anche “il danno di tipo esistenziale”, il quale deve essere risarcito “quando sia conseguenza, come nel caso di dequalificazione professionale del lavoratore subordinato, di una lesione in ambito di responsabilità contrattuale di diritti inviolabili costituzionalmente garantiti”.
Secondo la Cassazione, inoltre, la sussistenza di tale danno può essere provata anche mediante “presunzioni semplici, sulle quali il giudice può fondare in via esclusiva il proprio convincimento”.
E’ proprio in base a queste considerazioni che la Corte di Cassazione riteneva che la Corte d’appello si fosse correttamente pronunciata nel senso dell’accoglimento della domanda risarcitoria avanzata dal lavoratore, avendo la stessa ritenuto che, nel caso in esame, sussistessero “quegli indici presuntivi della presenza del danno c.d. non patrimoniale di tipo c.d. esistenziale, quale la lesione alla dignità personale ed al prestigio professionale” del lavoratore.
Conseguentemente, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, confermando integralmente la sentenza oggetto di impugnazione.