Nel caso esaminato dalla Corte, un lavoratore agiva in giudizio nei confronti della società sua datrice di lavoro, esponendo di essere stato licenziato “per superamento del periodo di comporto”, nonostante una delle assenze fosse stata determinata dalla necessità di sottoporsi ad un importante intervento chirurgico, a seguito di un infortunio subito sul luogo di lavoro.
Pertanto, il lavoratore deduceva l’illegittimità del licenziamento, in quanto “l’infortunio, che l’aveva costretto ad assentarsi dal lavoro per 68 giorni, era addebitabile ex art. 2087 del c.c. alla società, per violazione dell’art. 39 del D.P.R. n. 303 del 1956, in base al quale i gabinetti devono trovarsi in prossimità del posto di lavoro”.
Inoltre, il lavoratore evidenziava il “più generale obbligo di valutare i rischi per la sicurezza e la salute sancito dalla direttiva n. 89/391/CE”.
La domanda veniva rigettata in primo grado e la sentenza veniva confermata in secondo grado, con la conseguenza che il lavoratore provvedeva a proporre ricorso in Cassazione.
La Corte d’appello, in particolare, rilevava che “il tragitto per raggiungere i bagni non risultava essere stato caratterizzato da insidie tali da costituire un pericolo per l’incolumità delle persone” e che “non era emersa l’efficienza causale in relazione all’evento dell’asserita incompletezza o assenza del documento di valutazione dei rischi”.
In altri termini, la Corte d’appello non riteneva che l’infortunio subito dal lavoratore fosse riconducibile alla responsabilità del datore di lavoro, non essendo stata provata la sussistenza di particolari “insidie” lungo il percorso necessario a raggiungere la toilette.
In sede di giudizio di Cassazione, la Corte non riteneva fondati i motivi addotti dal lavoratore, rigettando il relativo ricorso.
Secondo la Cassazione, infatti, ai sensi dell’art. 2087 codice civile, è il lavoratore a dover provare “di aver subito un danno a causa dell’attività lavorativa svolta”, così come è il medesimo a dover dimostrare l’eventuale nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso di causalità tra tale nocività e il danno subito.
Spetta, invece, al datore di lavoro “dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno”.
Ebbene, nel caso di specie, la Corte d’appello aveva ritenuto “che non fosse significativo il documento di valutazione dei rischi, non risultando quale fosse la carenza specifica dell’ambiente di lavoro che esso era idoneo a denunciare”.
Il giudice di secondo grado, inoltre, aveva “esaminato le prove testimoniali escusse, al fine di evidenziare se fossero stati dimostrati (…) gli aspetti che si potevano porre in correlazione con l’obbligo deduttivo posto a suo carico sopra evidenziato”, concludendo nel senso del mancato assolvimento dell’onere della prova da parte del lavoratore, in quanto “non era risultata eccessiva la distanza tra la postazione di lavoro (…) ed i più vicini bagni aperti al pubblico”.
Nel caso di specie, dunque, la Corte d’appello aveva adeguatamente motivato la propria decisione, la quale doveva considerarsi immune da censure.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso, confermando la sentenza di secondo grado e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.