Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Venezia aveva confermato la sentenza di primo grado, emessa dal Tribunale di Treviso, con la quale era stata rigettata la domanda di risarcimento del danno da infortunio sul lavoro (art. 13 decreto legislativo n. 38 del 2000), proposta da un lavoratore nei confronti dell’azienda presso cui era impiegato (che, nel frattempo, era anche fallita).
Nello specifico, l’infortunio in questione era occorso al lavoratore quando questi era stato incaricato di ricevere i dipendenti di un’impresa appaltatrice di lavori, dovendo, a tal scopo, scavalcare il parapetto del tetto sovrastante il reparto produttivo aziendale.
La Corte d’appello, in particolare, era giunta alla conclusione di dover rigettare la domanda risarcitoria, in quanto il lavoratore non aveva dimostrato che l’azienda datrice di lavoro gli aveva impartito l’ordine di tenere il comportamento pericoloso sopra descritto, dal quale gli sarebbe derivato il danno alla salute lamentato.
Osservava la Corte d’appello, in proposito, che tale comportamento era del tutto estraneo rispetto alle mansioni alle quali il lavoratore era adibito.
Ritenendo la decisione ingiusta, il lavoratore decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, in particolare, la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto decisivo, ai fini del rigetto della domanda risarcitoria, il fatto che il lavoratore non aveva provato l’esistenza di una direttiva o di un ordine, da parte del datore di lavoro, di tenere la condotta pericolosa sopra descritta, mentre era onere proprio del datore di lavoro stesso provare che il danno era dipeso da una causa a lui non imputabile.
Evidenziava il ricorrente, inoltre, che la Corte d’appello non aveva nemmeno tenuto in considerazione la “prevedibilità del comportamento del ricorrente, da cui derivava l’obbligo del datore di porre in essere tutte le cautele necessarie a tutelarne la salute, non trattandosi affatto di comportamento eccentrico”.
La Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione al ricorrente, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Precisava la Cassazione, infatti, che, in tema di onere della prova in caso di infortuni sul lavoro, è il lavoratore che ha l’onere di provare l’esistenza del danno lamentato e che questo si è verificato a causa della nocività dell’ambiente di lavoro.
Se, poi, il lavoratore riesce a fornire questa dimostrazione, allora il datore di lavoro ha “l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno, rimanendo altrimenti quest’ultimo esonerato dall’onere di fornire la prova liberatoria a suo carico”.
Osservava la Cassazione, inoltre, che il risarcimento del danno al lavoratore non può ritenersi dovuto, laddove il lavoratore abbia tenuto un “comportamento anomalo”, dal momento che, in questo caso, “viene meno la cd. occasione di lavoro”, che ricomprende “ogni fatto ricollegabile al rischio specifico connesso all’attività lavorativa cui il soggetto è preposto”.
Il requisito dell’occasione di lavoro viene meno, infatti, “in presenza di un rischio estraneo e generato da una scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente all’attività lavorativa”.
Ciò premesso, la Cassazione riteneva che la Corte d’appello avesse del tutto correttamente concluso che lo scavalcamento del parapetto rappresentasse un comportamento completamente “estraneo ed eccentrico rispetto alle mansioni del ricorrente”, il quale svolgeva le mansioni di operaio modellista e di “incaricato della apertura dei cancelli, del sistema di allarme, del controllo di porte e uffici”.
Di conseguenza, secondo la Corte, il giudice di secondo grado aveva, altrettanto correttamente, rigettato la domanda risarcitoria proposta dal lavoratore.
Alla luce di tali considerazioni, la Cassazione rigettava il ricorso proposto dal lavoratore, confermando integralmente la sentenza di secondo grado e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.