Nel caso esaminato dalla Cassazione, L'Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza Medici (E.N.P.A.M.) aveva chiesto al Tribunale di Roma di dichiarare l'avvenuta risoluzione del contratto di locazione stipulato con una donna, per asserito inadempimento di quest’ultima agli obblighi contrattuali.
Il Tribunale, pronunciandosi in primo grado, aveva rigettato la domanda, evidenziando come l’ente avesse concesso il locazione l’immobile alla donna e non era stato dimostrato il fatto costitutivo dell’asserito inadempimento, vale a dire il dedotto abbandono e sublocazione dell’immobile locato.
Secondo il Tribunale, infatti, la donna aveva semplicemente “per un periodo di circa tre anni, ospitato nell'appartamento la sorella e il di lei figlio minore e tale comportamento non costituiva violazione degli accordi contrattuali”.
La Corte d'appello di Roma, pronunciandosi in secondo grado, aveva riformato la sentenza del Tribunale, dichiarando risolto il contratto e “ritenendo che la conduttrice - ove anche si fosse potuto aderire alla tesi che la stessa non aveva abbandonato l'appartamento nè lo aveva concesso in sublocazione totale ai suoi congiunti - aveva, comunque, violato l'art. 5 del contratto, che la obbligava a non sublocare nè a dare in comodato in tutto o in parte l'unità immobiliare, dovendosi escludere che la durata di circa tre anni della consentita occupazione stabile dell'immobile da parte della sorella e del nipote potesse essere considerata una semplice ospitalità e non piuttosto vero e proprio comodato del medesimo bene”.
Ritenendo la sentenza ingiusta, la donna proponeva ricorso per Cassazione, evidenziando la violazione degli artt. 1453, 1455 e 1571 cod. civ.
Il motivo di ricorso veniva considerato fondato.
La Corte di Cassazione, infatti, evidenziava che la sublocazione deve presumersi “nei casi in cui l'immobile sia occupato da persone che non sono al servizio o non siano ospiti del conduttore nè a questo legate da vincoli di parentela o affinità entro il quarto grado”.
Secondo la Cassazione, peraltro, doveva considerarsi nulla “la clausola di un contratto di locazione nella quale, oltre alla previsione del divieto di sublocazione, fosse contenuto il riferimento al divieto di ospitalità non temporanea di persone estranee al nucleo familiare anagrafico, siccome confliggente proprio con l'adempimento dei doveri di solidarietà che si può manifestare attraverso l'ospitalità offerta per venire incontro ad altrui difficoltà, oltre che con la tutela dei rapporti sia all'interno della famiglia fondata sul matrimonio sia di una convivenza di fatto tutelata in quanto formazione sociale, o con l'esplicazione di rapporti di amicizia”.
Di conseguenza, secondo la Corte, “se l'ospitalità - anche non temporanea e protratta nel tempo - non concreta ipotesi di presunzione di sublocazione e se da essa neppure è dato presumere una detenzione autonoma dell'immobile locato derivante da un concesso comodato”, si deve necessariamente ritenere che “la semplice durata di tale permanenza, in assenza di altre circostanze, non poteva essere assunta ad indizio grave e determinante idoneo a provare che ai suoi congiunti la conduttrice B. avesse accordato diritti propri del comodatario”.
Di conseguenza, il giudice di secondo grado avrebbe errato nell’assumere “a base del preteso comodato a favore della sorella e del nipote” della conduttrice, “la sola durata dell'accertata ospitalità, neppure accertando se la detenzione derivante dal comodato abbia riguardato la totalità dell'immobile, per avvenuto abbandono del conduttore, ovvero una parte soltanto di esso, del quale il conduttore abbia continuato ad abitare la restante parte”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione annullava la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima decidesse nuovamente sulla questione, in base ai principi sopra enunciati.