Come già chiarito dalle Sezioni Unite, la non punibilità per particolare tenuità del fatto è una figura di diritto penale sostanziale la cui ratio è quella di espungere, in ottica deflattiva, dal circuito penale fatti marginali, non meritevoli dell’irrogazione di una sanzione penale.
Ma se l’imputato ha riportato numerose precedenti condanne penali può comunque trovare applicazione questa causa di non punibilità? La risposta a tale quesito è di recente stata fornita dalla Corte di Cassazione, con sentenza n. 8302 del 10 marzo 2022.
La Suprema Corte, in particolare, ha affermato – ribadendo un proprio precedente orientamento (cfr. Cass. c.d. Sacco n. 35757/2017) – che il riconoscimento della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto non è precluso dall'esistenza di precedenti penali gravanti sull'imputato, pur quando, sulla base di essi, si sia applicata una pena superiore al minimo edittale, atteso che i parametri di valutazione di cui all'art. 131-bis c.p. hanno natura e struttura oggettiva, ed operano su un piano diverso da quelli sulla personalità del reo.
Condizione richiesta dal comma primo del citato articolo affinchè operi la causa di non punibilità è infatti che il comportamento posto in essere dall’agente risulti non abituale. Il comma terzo, nello specifico, precisa poi che il comportamento è abituale quando l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole.
Con riguardo a tale ultimo presupposto, quindi, la Suprema Corte ha precisato che “l'operatività dell'istituto va esclusa quando il soggetto agente abbia violato più volte la stessa o più disposizioni penali sorrette dalla medesima ratio punendi (…) con la conseguenza che il mero richiamo di plurimi precedenti penali da cui l'imputato risulti gravato non è sufficiente a giustificare il mancato riconoscimento dell'esimente”. I precedenti penali, pertanto, possono assumere valenza ostativa solo ove l'imputato risulti essere stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, oppure abbia commesso più reati della stessa indole.
Tanto affermato, gli Ermellini concludono poi chiarendo che dai suesposti principi deriva che, nel caso in cui il giudice di merito si limiti a fare un generico riferimento ai precedenti penali dell’imputato per escludere l’applicazione dell’art. 131 bis., egli compierebbe un sillogismo avente natura del tutto congetturale. Laddove si faccia menzione dei precedenti penali dell’imputato, pertanto è necessario spiegare la presunta comunanza di indole tra i reati precedenti e quello per cui si procede.
Il caso concretamente giunto al vaglio della Cassazione, in particolare, riguardava un soggetto condannato, dal Tribunale prima e dalla Corte d’appello poi, in relazione al reato di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 95 per aver reso false dichiarazioni al fine di ottenere l’ammissione al gratuito patrocinio in un processo penale. Il fatto era evidentemente di particolare tenuità: l’imputato, infatti, aveva attestato falsamente che nessuno dei familiari conviventi era proprietario di immobili o percepiva redditi, mentre il figlio convivente era risultato proprietario di un immobile e di un'autovettura, che quand’anche considerati non avrebbero comunque determinato il superamento del previsto limite reddituale. I giudici di merito, tuttavia, avevano ritenuto inapplicabile la causa di non punibilità alla luce dei numerosi precedenti penali emersi dal certificato del casellario del reo.
Per la cassazione della sentenza di secondo grado aveva quindi presentato ricorso l’imputato, dolendosi – con esclusivo riferimento agli aspetti ora di interesse – della violazione dell’art. 131 bis c.p., che non annovera tra i presupposti l’assenza di precedenti penali. Ritenuta fondata tale censura sulla scorta di quanto sopra precisato, la Cassazione ha dunque annullato la sentenza con rinvio.