Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Napoli aveva confermato la sentenza di primo grado che aveva condannato per peculato una donna, poichè, “l'imputata, impiegata presso la Polizia Municipale del Comune di San Giuseppe Vesuviano, si era appropriata di somme di denaro consegnatele dagli utenti per pagare le multe, falsificando le ricevute di pagamento, somme che non venivano mai versate all'ufficio”.
La Corte d’appello, in particolare, aveva rilevato che, nel caso di specie, l’imputata non era addetta a svolgere una “mansione meramente materiale”, in quanto la stessa svolgeva “un'attività di tipo impiegatizio che comportava la cura del settore dei pagamenti delle sanzioni amministrative”.
Inoltre, l’imputata era abilitata a “ricevere le somme corrispondenti all'importo delle sanzioni elevate e veniva pertanto in possesso del denaro per ragioni del suo ufficio o servizio, mentre i bollettini falsificati di pagamento consegnati agli utenti erano volti a dissimulare l'avvenuta appropriazione”.
Avverso la pronuncia di condanna, l’imputata proponeva ricorso in Cassazione, lamentando la violazione della legge n. 241 del 2006, nonché la “manifesta infondatezza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione ed erronea applicazione di legge penale”.
Secondo la ricorrente, infatti, la Corte d’appello non aveva adeguatamente tenuto in considerazione il fatto che la medesima non era “pubblico ufficiale né incaricata di un pubblico servizio” e non svolgeva “la funzione di addetta alla ricezione del denaro delle contravvenzioni”.
Di conseguenza, non potrebbe ritenersi configurato il reato di peculato ma, semmai, quello di truffa, di cui all’art. 640 codice penale.
La Corte di Cassazione riteneva fondato il ricorso “con limitato riguardo alla determinazione del trattamento sanzionatorio”, dovendosi invece considerare infondati i motivi di ricorso con cui l’imputata contestava l'integrazione della fattispecie di peculato, evidenziando, da un lato, come la stessa non rivestisse la qualità di pubblico ufficiale ovvero di incaricata di un pubblico servizio e, d’altro lato, come “la condotta fraudolenta fosse strumentale ad ottenere disponibilità del denaro oggetto del reato”, costituendo, dunque, “un antecedente rispetto all'appropriazione, di tal che nella specie risulterebbe integrato il reato di truffa”.
Ebbene, in proposito, la Corte evidenziava che “il reato di peculato è configurabile nella ipotesi in cui l'agente si appropri di somme di pertinenza della pubblica amministrazione che siano da lui riscosse dai privati, indipendentemente dalle modalità di riscossione ed anche a prescindere dall'irritualità del mezzo di pagamento”, in quanto “a costituire il possesso "per ragioni di ufficio" è sufficiente un qualsiasi rapporto che, comunque, si ricolleghi, anche di fatto, alle mansioni esercitate dall'agente”.
In sostanza, dunque, secondo la Cassazione, doveva considerarsi del tutto irrilevante, ai fini della integrazione del reato di peculato, che l’imputata avesse rispettato o meno le “disposizioni organizzative dell'ufficio, potendo lo stesso derivare anche dall'esercizio di fatto o arbitrario di funzioni, dovendosi escludere il peculato solo quando esso sia meramente occasionale, ovvero dipendente da evento fortuito o legato al caso”.
Inoltre, la Cassazione osservava come “in tema di peculato, il possesso qualificato dalla ragione dell'ufficio o del servizio non è solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento”.
Secondo la Corte di cassazione, pertanto, il giudice di secondo grado aveva dato corretta applicazione ai principi sopra enunciati, ritenendo integrata, nel caso di specie “la fattispecie criminosa di peculato”.
L’imputata, infatti, pur non essendo un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, era comunque “addetta al settore dei pagamenti ed alla riscossione, anche coattiva, delle sanzioni amministrative“, con la conseguenza che la medesima “appariva agli utenti titolata a ricevere il denaro ad estinzione delle sanzioni elevate nei loro confronti, sicchè, nel versare le somme, essi erano convinti di estinguere il loro debito verso l'amministrazione”.
Conseguentemente, secondo la Cassazione, poiché l’imputata si “appropriava di denaro di cui ella aveva il possesso in ragione della posizione stabilmente ricoperta nell'ufficio, esercitando di fatto (…) funzioni che ella, secondo le vigenti disposizioni organizzative dell'ufficio, non avrebbe potuto svolgere”, il reato di peculato poteva dirsi configurato.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte rigettava il ricorso proposto dalla ricorrente, accogliendo unicamente il motivo di ricorso relativo alla determinazione della pena che, effettivamente, non era stata correttamente quantificata.