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Non costituisce reato la decisione della madre di non far incontrare la figlia con il padre aggressivo

Famiglia - -
Non costituisce reato la decisione della madre di non far incontrare la figlia con il padre aggressivo
Non commette reato la madre che non consenta gli incontri tra la figlia e il padre violento, dopo che gli stessi siano stati sospesi su richiesta dei servizi sociali.
La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12976/2020, ha avuto modo di pronunciarsi in merito alla possibilità di ritenere configurato il delitto di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, ex art. 388 del c.p., nel caso in cui una madre non adempia alla decisione del Presidente del Tribunale dei Minori, che abbia fissato degli incontri protetti tra padre e figlia, con particolare attenzione al caso in cui detti incontri siano stati sospesi su richiesta dei servizi sociali.

La questione sottoposta al vaglio degli Ermellini nasceva dalla vicenda che aveva visto come protagonista la mamma di una bambina, la quale, in entrambi i gradi del giudizio di merito, si era vista condannare ai sensi degli articoli 81 e 388 del c.p., venendo, però, dichiarata non punibile per particolare tenuità del fatto, ex art. 131 bis del c.p., per non aver rispettato i provvedimenti disposti dal Presidente del Tribunale dei Minori, essendosi più volte rifiutata di partecipare e di portare con sé la figlia minore agli incontri settimanali con il padre della bimba, da svolgere presso il servizio sociale, non consentendo, così, all'uomo di incontrare la figlia.

Avverso tale decisione la donna ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione, eccependo, in particolare, una violazione di legge ed un vizio motivazionale in relazione all’accertamento degli elementi costitutivi della responsabilità penale attribuitale. Secondo la ricorrente, infatti, la sentenza impugnata non aveva esaminato le ragioni da lei poste a giustificazione del proprio comportamento inosservante del provvedimento del Giudice. Già in sede di gravame la donna aveva evidenziato come i previsti incontri protetti tra padre e figlia, da svolgersi presso il servizio sociale, non si fossero verificati, non per sua volontà, bensì per espressa decisione degli stessi servizi sociali, in attesa che il Tribunale dei Minori individuasse le opportune iniziative da intraprendere, alla luce del contenuto delle relazioni redatte, al riguardo, da un’assistente sociale e da una psicologa.
Allo stesso modo, secondo la ricorrente, i giudici di merito non avevano adeguatamente tenuto conto nemmeno delle emergenze istruttorie acquisite in relazione ai comportamenti violenti e minacciosi tenuti dal padre della bambina proprio durante i suddetti incontri, sia verso la ricorrente stessa che verso gli assistenti sociali.

La ricorrente lamentava, altresì, la mancata acquisizione degli elementi di prova a proprio discarico, sollecitati dalla difesa.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, annullando con rinvio la sentenza impugnata.

Gli Ermellini hanno, difatti, evidenziato come, secondo le Sezioni Unite, il concetto di elusione di un provvedimento del giudice relativo all’affidamento di minori, ai sensi del art. 388 del c.p., non può equipararsi puramente e semplicemente a quello di inadempimento, occorrendo, affinché possa concretarsi il reato, che il genitore affidatario si sottragga, con atti fraudolenti o simulati, all’adempimento del suo obbligo di consentire le visite del genitore non affidatario, ostacolandole, appunto, attraverso comportamenti implicanti un inadempimento in mala fede e non riconducibile ad una mera inosservanza dell’obbligo (Cass. Pen., SS.UU., n. 36692/2007).

Alla luce di tale statuizione appare chiaro, secondo i giudici di legittimità, che la Corte territoriale non abbia fornito una congrua risposta alle deduzioni specificamente prospettate in sede di gravame dall’imputata, essendosi erroneamente limitata ad equiparare l’inadempimento all’elusione, senza, peraltro, tener conto degli elementi addotti, a proprio discarico, dalla donna.

La Corte d’Appello ha, altresì, errato anche nel non disporre l’acquisizione degli elementi di prova richiesti dalla difesa al fine di dimostrare l’inesistenza degli elementi costitutivi del reato contestato all’imputata. Secondo gli Ermellini, infatti, i giudici d’appello avrebbero dovuto accertare ogni circostanza del caso concreto, al fine di verificare se la spiegazione alternativa prospettata dalla ricorrente fosse o meno fondata.


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