Nel momento in cui scriviamo, le misure “di contenimento” adottate da, o sulla base di, provvedimenti del Governo nel tentativo di arginare il contagio da Covid-19 sono pienamente in vigore. Del resto, il tempo trascorso dall’inizio dell’emergenza è davvero poco per consentire di esprimere valutazioni certe, o quanto meno attendibili, sia sulla prevedibile durata dell’attuale situazione, sia in merito agli effetti che il forzato “stop” impresso a molte attività economiche (ed anche alla vita e alla libertà personale degli individui) produrrà nel medio e lungo periodo.
Parliamo di effetti di vario tipo: effetti sulla salute, senz’altro, e sull’equilibrio delle persone (in particolare di talune categorie “deboli”); effetti sull’economia e, naturalmente, ciò che interessa specificamente in questa sede, effetti giuridici.
In queste ore, i giuristi si stanno interrogando sulle conseguenze delle misure emergenziali sui contratti in corso.
Va ribadito che il dibattito è acceso e vi sono ben poche certezze. Infatti, da un lato abbiamo alcune norme, contenute proprio nei decreti governativi di marzo, che forniscono indicazioni relative ai contratti: si tratta, tuttavia, di norme per nulla chiare, che non solo non risolvono le numerose questioni sul tappeto, ma ne pongono di nuove.
Più precisamente, l’art. 3, comma 6 bis del D.L. n. 6 del 23/02/2020 (comma aggiunto dall’art. 91, comma 1, D.L. 17 marzo 2020, n. 18) recita come segue: “il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
Dall’altro, le stesse previsioni contenute nel codice civile, cui è inevitabile fare riferimento, non conducono comunque a soluzioni chiare, proprio per l’eccezionalità della situazione che stiamo vivendo, assolutamente inedita, per cui non è possibile neppure prendere come riferimento precedenti giurisprudenziali specifici o studi giuridici sull’argomento.
Inoltre, va chiarito che non esiste una soluzione univoca per tutti i contratti, ma essa va ricercata caso per caso, a seconda della tipologia e del contenuto dell’accordo concluso tra le parti, perché le risposte possono essere molto diverse da una fattispecie all’altra.
Veniamo ora al nostro caso.
I c.d. contratti di campeggio vanno qualificati come contratti atipici misti, perché contengono elementi causali della locazione, del deposito e del servizio turistico all'aperto, quali l'allaccio alla rete idrica ed elettrica e la possibilità di fruire di ulteriori servizi comuni offerti dal campeggio (così testualmente Tribunale Massa, sent. 08/08/2014).
Le problematiche riguardano prevalentemente - ma non solo - la parte “locatizia” del contratto, ed è su quella che ci concentreremo, tralasciando gli aspetti del deposito e del servizio turistico all’aperto (anche questi, comunque, interessati dall’attuale situazione). Infatti il problema centrale è caratterizzato dalla impossibilità di disporre della piazzola per tutto il periodo di vigenza delle misure restrittive, oltre naturalmente che dei servizi connessi.
In questi giorni si invoca spesso l’art. 1463 del c.c. (impossibilità sopravvenuta della prestazione), secondo cui “nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell'indebito”.
Possiamo sostenere che la prestazione del gestore del parco, nel nostro caso, sia divenuta “impossibile”? E di quale prestazione si tratterebbe esattamente?
Ora, in tema di locazione l’art. 1575 del c.c. indica come obbligazioni principali del locatore: consegnare al conduttore la cosa locata in buono stato di manutenzione; mantenerla in stato da servire all'uso convenuto; garantirne il pacifico godimento durante la locazione.
Riguardo all’ultima obbligazione, non è chiaro se la garanzia del pacifico godimento sia applicabile alla situazione attuale, proprio perché - come detto sopra - si tratta di eventi assolutamente nuovi, che non trovano riscontro nella nostra storia recente. Inoltre, anche volendo ammettere che operi tale garanzia, occorre considerare che la forzata chiusura di molte attività e i pesanti limiti alla libertà di spostamento delle persone sono stati imposti con (o sulla base di) atti normativi, che evidentemente sfuggono alla sfera di controllo del locatore.
Peraltro, anche volendo parlare di impossibilità, si tratterebbe di una impossibilità temporanea, destinata a venire meno al cessare dell’emergenza, con la revoca (o l’attenuazione) delle misure di contenimento.
Al riguardo l’art. 1256 del c.c., dopo aver stabilito che “l'obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile”, aggiunge che, “se l'impossibilità è solo temporanea, il debitore finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell'adempimento”.
Comunque, se fosse applicabile la disciplina dell’impossibilità sopravvenuta, anche temporanea, il locatore (gestore del parco) non potrebbe pretendere, in relazione al periodo preso in considerazione, il corrispondente importo del canone. Si tratta però di una soluzione che, in questo momento, non convince del tutto, per i motivi sopra specificati.
Appare forse più pertinente il richiamo all’istituto della eccessiva onerosità sopravvenuta, ex art. 1467 del c.c.: “nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall'articolo 1458”.
Tale ultima norma prevede che la risoluzione del contratto per inadempimento ha effetto retroattivo tra le parti, salvo il caso, appunto, di contratti ad esecuzione continuata o periodica, come la locazione, riguardo ai quali l'effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite.
La risoluzione, sempre secondo l’art. 1467 c.c., non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell'alea normale del contratto: nel nostro caso, tuttavia, siamo di fronte non ad una situazione di rischio “normale”, ma del tutto eccezionale.
Vero è che l’art. 1467 c.c. prevede come primo rimedio lo scioglimento del vincolo contrattuale: ciò potrebbe non corrispondere all’interesse di chi, ormai da anni, trascorre le vacanze nello stesso campeggio, con la possibilità di usufruire della piazzola nonché di tutti i servizi compresi nel contratto per molti mesi all’anno.
Una soluzione più “ragionevole” è, però, quella offerta dall’ultimo comma della norma, secondo cui la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto: ciò potrebbe avvenire attraverso una congrua riduzione della quota di canone relativa al periodo di chiusura (del quale ad oggi non si conosce la durata, visto che potrebbe subire ulteriori proroghe).
Del resto, vista l’incertezza interpretativa e la novità delle questioni in gioco, non è neppure possibile formulare previsioni su probabili esiti di eventuali giudizi, considerando anche la mole di procedimenti che rischia di riversarsi nei tribunali.
Alla luce di tutte le considerazioni svolte, si suggerisce di cercare, il più possibile, un accordo tra le parti: un punto d’incontro tra la pretesa del conduttore di non pagare e quella del locatore di continuare a percepire l’intero importo originariamente pattuito.