Oggi la norma citata prevede che commette il reato di abuso d’ufficio il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procuri a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arrechi ad altri un danno ingiusto.
Prima di tale riforma, invece, la condotta incriminata poteva consistere anche nella “violazione di norme di legge o di regolamento”: l’ambito di applicazione della norma, dunque, si è ristretto in quanto, non essendo più punibile la violazione di regole organizzative o comunque regolamentari, si è realizzata una parziale abolitio criminis.
Circa tale intervento normativo sono tuttavia sorti alcuni dubbi di costituzionalità. Il Gup di Catanzaro, infatti, ha sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione agli articoli:
- 77 Cost., in quanto difettava il presupposto della straordinaria necessità e urgenza e in quanto comunque la riforma dell’abuso d’ufficio è materia del tutto disomogenea rispetto a quelle disciplinate dalle altre disposizioni del D.L. 76/2020, adottato dal Governo nel contesto dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 e volto a realizzare un’urgente accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture attraverso la semplificazione elle procedure in materia i contratti pubblici ed edilizia;
- 3 e 97 Cost., in quanto la riforma, anziché tutelare l’interesse al buon andamento, ha configurato un “reato legislativamente impossibile”: secondo il rimettente, infatti, l’aver ancorato il fatto tipico alla violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti con forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, farebbe sì che l’abuso, per assumere rilievo penale, debba risolversi nell’inosservanza di una norma che prefigura un’attività amministrativa vincolata nell’an, nel quid e nel quomodo. In tal modo, dunque, si sarebbe tolto rilievo penale alle condotte di abuso della discrezionalità amministrativa, in violazione del principio di uguaglianza.
Nello specifico, i Giudici delle Leggi hanno ritenuto
- infondata la questione relativa all’art. 77 Cost., in quanto sussistono entrambi i presupposti della decretazione d’urgenza. In primo luogo, infatti, la Consulta afferma che non manca l’omogeneità, da intendersi come fine unitario dell’intervento normativo: l’obiettivo del D.L. 76/2020 era infatti quello di promuovere, dopo la prima fase pandemica, la ripresa economica del paese, semplificando vari meccanismi della Pubblica Amministrazione. E l’obiettivo di semplificazione connota anche la riforma dell’abuso d’ufficio: a fronte del dilagare dei fenomeni di c.d. “burocrazia difensiva” e c.d. “paura della firma”, indotti al timore di un’imputazione penale e forieri di inefficienza e immobilismo economico, la ripresa del paese può essere “facilitata da una più puntuale delimitazione delle responsabilità”. In secondo luogo, la Consulta reputa sussistente il presupposto dell’urgenza, specificando che l’esigenza di contrastare i fenomeni di burocrazia difensiva non è nata con la pandemia ma proprio in relazione ad essa è divenuta urgente;
- inammissibile la questione relativa agli artt. 3 e 97 Cost.: il giudice a quo, infatti, invocava una pronuncia ablativa della modifica operata dalla norma censurata, che avrebbe avuto come effetto quello di determinare la reviviscenza della previgente norma incriminatrice, dal perimetro applicativo più vasto. Trova dunque applicazione il costante indirizzo della Consulta per cui l’adozione di pronunce con effetti in malam partem in materia penale risulta in via generale preclusa al principio della riserva di legge sancito dall’art. 25 Cost.
Il caso di specie, in particolare, riguardava il rinvio a giudizio di cinque persone ritenute responsabili del reato in esame. Secondo l’accusa, infatti, tre degli imputati - in qualità di membri di una commissione esaminatrice nominata nell’ambito di una procedura concorsuale indetta da un’azienda ospedaliere per il conferimento di incarichi di dirigente medico – avrebbero indebitamente favorito gli altri due coimputati, garantendo loro l’ammissione alla procedura in mancanza di titoli nonché la collocazione nella graduatoria finale. A tali soggetti, pertanto, era contestata l’intenzionale violazione dei principi di cui all’art. 97 Cost. e di alcuni specifici regolamenti in materia di requisiti per la partecipazione alle pubbliche selezioni e di attribuzione di punteggi.
Nelle more del processo era tuttavia intervenuto il D.L. 76/2020 che ha modificato, come sopra esaminato, la fattispecie incriminatrice.