Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Potenza, in riforma della sentenza emessa dal giudice di primo grado, aveva condannato un imputato per il reato di “abuso d’ufficio”, di cui all’art. 323 c.p., in quanto questi, in qualità di comandante dei Carabinieri, nell’esercizio delle sue funzioni e in violazione di quanto previsto dall’art. 193 cod Codice della Strada, non aveva comminato ad un conducente privo di assicurazione la relativa contravvenzione.
Così facendo, infatti, secondo la Corte d’appello, l’imputato aveva intenzionalmente procurato al conducente in questione un “ingiusto vantaggio patrimoniale”.
Ritenendo la decisione ingiusta, il comandante dei Carabinieri condannato aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, in particolar, la Corte d’appello non avrebbe adeguatamente motivato la propria decisione in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato (vale a dire, l’intenzionalità della condotta), evidenziando che l’imputato aveva agito a tutela esclusiva del pubblico interesse.
La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover dar ragione all’imputato, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Osservava la Cassazione, in proposito, che nel delitto di “abuso d’ufficio”, è necessario dimostrare che “l'evento costituito dall'ingiusto vantaggio patrimoniale o dal danno ingiusto sia voluto dall'agente e non semplicemente previsto ed accettato come possibile conseguenza della propria condotta”.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, la condotta di un imputato per tale reato non può dirsi “intenzionale” quando risulti, “con ragionevole certezza”, che l’imputato “si sia proposto il raggiungimento di un fine pubblico, proprio del suo ufficio”.
L’intenzionalità della condotta, dunque, secondo la Corte, non può derivare automaticamente dal comportamento illegittimo dell’imputato, “ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici”, come “la specifica competenza professionale dell'agente” o eventuali “rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno”.
Poiché, nel caso di specie, la condotta intenzionale dell’agente non risultava adeguatamente dimostrata, la Corte d’appello riteneva di dover accogliere il ricorso proposto dall’imputato, annullando la sentenza impugnata e rinviando la causa alla Corte d’appello di Salerno, affinchè la medesima decidesse nuovamente sulla questione, sulla base dei principi sopra enunciati.