Riepilogando brevemente la vicenda, nel caso esaminato dalla Corte, una madre era stata imputata del reato di “minaccia” (art. [[n612cp c.p.]] e di “maltrattamenti in famiglia” (art. 572 c.p.), in base al quale chiunque “maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da due a sei anni”. La disposizione prevede, poi, un aumento di pena se da tali fatti deriva la morte del soggetto o delle lesioni personali gravi o gravissime.
Nel caso concreto, la madre era solita, infatti, colpire la figlia, di appena due anni, con oggetti vari, oltre che insultarla pesantemente, minacciandola anche di morte.
Si legge nella sentenza come, in un’occasione, poiché la bimba non voleva uscire dalla piscina, la mamma la colpiva violentemente alla testa e alle gambe per circa tre minuti.
Nonostante questi gravissimi episodi, in primo grado, la madre non veniva condannata per il reato di maltrattamenti in famiglia, in quanto il giudice riteneva la stessa colpevole solo del meno grave reato di “abuso dei mezzi di correzione o disciplina”, di cui all’art. 571 c.p., assolvendola anche per il reato di minaccia.
Veniva presentato appello e la Corte ammetteva espressamente che non poteva mettersi in dubbio che la madre fosse “particolarmente manesca”, essendo dimostrato che la stessa picchiava spesso la figlia “con sberle, pizzicotti, utilizzando anche mestoli da cucina, calzascarpe o altri oggetti che le capitavano a tiro, in contesti che palesavano la evidente sproporzione, se non la gratuità della punizione”.
A riprova di ciò, la Corte osserva come anche la figlia stessa, sentita nel corso del procedimento, aveva confermato “di essere stata picchiata dalla mamma perché faceva “la cattiva”, precisando che la mamma usava la bacchetta per fare la minestra e i bastoncini per il riso e la colpiva sulle spalle, il petto, le braccia, le gambe, che le faceva male e che lei allora scappava sotto il letto o nel garage con i cani”.
In conclusione, la Corte non ritiene corretta la decisione del Giudice di primo grado, della quale non condivide le motivazioni.
Precisa la Corte, infatti, come non possano condividersi le motivazioni del Giudice di primo grado, “che, dopo aver dato per pacifica la condotta particolarmente manesca dell’imputata, l’ha però ritenuta sostenuta da una finalità educativa – correttiva, che non solo non trova riscontro, ma che con essa platealmente collide, posto che l’esigenza di salvaguardare la dignità del bambino esclude il ricorso a metodi educativi fondati sulla mortificazione della personalità e sulla punizione fisica”.
Secondo il Giudice di secondo grado, quindi, lo scopo educativo non può essere assolutamente perseguito attraverso la violenza, che comporta una evidente violazione della dignità della persona, soprattutto se di minore età.
In proposito, il Giudice richiama una precedente sentenza con cui la Corte di Cassazione ha confermato questa conclusione, precisando come “l’esigenza di salvaguardare la dignità del bambino esclude il ricorso a metodi educativi fondati sulla mortificazione della personalità e sulla punizione fisica”, in quanto “vengono in gioco valori fondamentali dell’ordinamento (consacrati nei principi di cui agli artt. 2, 3 ,30 e 32 Cost.), che fanno parte del visibile e consolidato patrimonio etico culturale della Nazione e del contesto sovranazionale in cui la stessa è inserita e, come tali, non sono suscettibili di deroghe di carattere soggettivo e non possono essere oggetto, da parte di chi vive e opera nel nostro territorio ed è quindi soggetto alla legge italiana, di valida eccezione di ignoranza scusabile” (Cass. civ. sentenza n. 36564 del 2012).