Questo reato è previsto e disciplinato dall’art. 572 del c.p., in base al quale chi “maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da due a sei anni.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni”.
Occorre chiedersi se questo reato possa configurarsi anche nell’ipotesi in cui sia intervenuta la separazione di fatto dei coniugi, i quali abbiano, dunque, cessato la convivenza.
Nel caso esaminato dalla Corte, l’indagata era accusata di aver maltrattato il coniuge non vedente, con il quale era separata in casa.
Tali accuse che avevano trovato conferma non solo in sede di istruttoria testimoniale (in quanto i testimoni sentiti avevano confermato i frequenti litigi dei coniugi stessi e i comportamenti molesti dell’indagata) ma anche nelle dichiarazioni rese dall’assistente sociale e dai Carabinieri, cui l’indagata aveva consegnato diverse armi che la stessa teneva in casa e che confermavano le minacce perpetrate al marito.
In particolare, la persona indagata del reato in questione aveva proposto ricorso per Cassazione contro il provvedimento cautelare con cui il Tribunale aveva disposto il suo allontanamento dalla casa familiare, ai sensi dell’art. 282 bis del c.p.p.
Va osservato, infatti, che, nell’ambito di un procedimento avviato per il reato di maltrattamenti in famiglia, è ben possibile che il giudice ritenga opportuno disporre anche la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa famigliare, previsto dall’art. 282 bis c.p.p.
In particolare, si tratta di un provvedimento con il quale il giudice “prescrive all'imputato di lasciare immediatamente la casa familiare, ovvero di non farvi rientro, e di non accedervi senza l'autorizzazione del giudice che procede. L'eventuale autorizzazione può prescrivere determinate modalità di visita”.
Secondo la ricorrente, dunque, il Giudice avrebbe errato nel disporre tale misura cautelare, in quanto l’indagata e la persona offesa erano di fatto separati e avevano cessato la loro convivenza, con la conseguenza che non sussisterebbero i presupposti richiesti dalla disposizione in questione.
In proposito, la Corte di Cassazione penale, nella sentenza n. 17950 del 2016 ha precisato come il reato si configuri indipendentemente dal fatto che i coniugi si siano separati e, dunque, non vivano più assieme, in quanto la coabitazione non è elemento essenziale del reato in questione, “integrando soltanto un’occasione di fatto che agevola le condotte prevaricatrici”, con la conseguenza che “il reato di maltrattamenti a carico del coniuge è ben ravvisabile anche quando gli atti vessatori, configgenti con un normale regime di vita, siano posti in essere dopo la separazione di fatto e la cessazione della convivenza”.
In breve, la Corte di Cassazione ha specificato come il fatto di aver cessato, di fatto, la convivenza non ha alcuna rilevanza ai fini dell’accoglimento della domanda cautelare, dal momento che la coabitazione rappresenta solo un fattore che può agevolare la commissione dei maltrattamenti, ma non è assolutamente un presupposto del reato.
Anche con riferimento alla legittimità o meno della richiesta misura cautelare, il fatto che i coniugi abbiano cessato la convivenza appare irrilevante.
La Corte di Cassazione penale, nella sentenza sopra citata, ha precisato, infatti, come “il presupposto della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare ex art. 282 bis c.p.p. non è la condizione di “attuale” coabitazione dei coniugi, ma l’esistenza di una situazione per cui all’interno della relazione familiare prendono corpo condotte in grado di minacciare l’incolumità fisica e psichica di una persona”.