La questione sottoposta al vaglio degli Ermellini era nata in seguito alla condanna, inflitta ad un uomo all’esito di entrambi i gradi del giudizio di merito, per il reato di maltrattamenti in famiglia, commesso in danno della convivente e delle due figlie.
Di fronte alla conferma della propria condanna, l’imputato ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando, innanzitutto, un vizio di motivazione della sentenza d’appello, la quale, a suo dire, era fondata esclusivamente sulle dichiarazioni rese dalla convivente, le quali sarebbero state smentite da altre prove acquisite nel corso del processo.
Con un secondo motivo di ricorso, l’uomo eccepiva, poi, come, contrariamente a quanto deciso dai Giudici di merito, i fatti da lui commessi dovessero essere ricondotti al reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, di cui all’art. 571 del c.p., in quanto, ad eccezione di un unico episodio, egli non aveva mai fatto uso di violenza.
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile.
Quanto al primo motivo di doglianza, nel dichiararne l’inammissibilità, gli Ermellini, dopo aver evidenziato l’analiticità della motivazione fornita dalla Corte d’Appello, hanno ribadito il costante principio di diritto per cui una sentenza “non può essere annullata sulla base di mere prospettazioni alternative che si risolvano in una rilettura orientata degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferire rispetto a quelli adottati dal giudice di merito, perché considerati maggiormente plausibili, o perché assertivamente ritenuti dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata” (Cass. Pen., n. 47204/2015; Cass. Pen., n. 22256/2006).
In relazione, poi, al secondo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione ha ripreso il suo costante orientamento per cui “l’elemento differenziale tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti non può individuarsi nel grado di intensità delle condotte violente tenute dall’agente; il reato di abuso dei mezzi di correzione presuppone l’uso non appropriato di metodi o comportamenti correttivi, in via ordinaria consentiti, quali l’esclusione temporanea dalle attività ludiche o didattiche, l’obbligo di condotte riparatorie o forme di rimprovero non riservate” (Cass. Pen., n. 11777/2020).
Come ulteriormente precisato dalla stessa giurisprudenza di legittimità, infatti, qualora si sia fatto ricorso alla violenza, non si può mai ritenere configurato il delitto di cui all'art. 571 c.p., in quanto l'uso della violenza per fini correttivi non è mai consentito (Cass. Pen., n. 11956/2017).
Alla luce di tali precisazioni, è, pertanto, risultata corretta la decisione dei Giudici di merito, i quali hanno puntualmente evidenziato come i fatti oggetto del processo fossero connotati da un ricorso reiterato alla violenza, sia fisica che morale, circostanza, questa, radicalmente incompatibile con il reato ex art. 571 del c.p.