Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Perugia aveva confermato la sentenza di primo grado che riconosceva l'imputato reo di aver violato gli obblighi di assistenza familiare nei confronti del figlio minore. Il tutto traeva origine dalla seguente, semplice e ormai molto comune, vicenda: un padre ometteva di corrispondere l’assegno di mantenimento stabilito dal Giudice per il figlio minore. La madre, costituitasi parte civile nel procedimento penale, avanzava richiesta di risarcimento per i danni subiti anche in ragione del fatto che il genitore si era completamente disinteressato del figlio, avendolo visto solo due volte nel primo anno di vita.
Ritenendo la sentenza ingiusta, l'uomo proponeva ricorso per Cassazione, contestando le affermazioni della madre e rilevando il proprio stato di difficoltà economica, che l’aveva portato anche alla dichiarazione di fallimento.
Secondo il ricorrente, inoltre, non sussisteva un effettivo stato di bisogno in capo al minore e alla madre, con la conseguenza che mancava il presupposto per la sussistenza dell’obbligo di mantenimento.
Tuttavia, la Corte di Cassazione non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Secondo la Cassazione, infatti, la Corte d’appello aveva fatto corretto riferimento alle dichiarazioni della madre, la quale aveva riferito di aver dovuto chiedere aiuto a terzi per provvedere al mantenimento del figlio.
Trattandosi di figlio minore, peraltro, lo stato di bisogno doveva presumersi solo per tale aspetto e non erano stati forniti elementi idonei a superare detta presunzione. Il fatto che la madre avesse dovuto rivolgersi a terzi per chiedere aiuto, peraltro, non faceva che corroborare tale presunzione.
Inoltre, secondo la Cassazione, la mancata corresponsione del mantenimento e il totale disinteresse del padre nei confronti del figlio, erano anteriori alla dichiarazione di fallimento, con la conseguenza che tale circostanza non poteva essere addotta a giustificazione del proprio comportamento. Lo stato di difficoltà economica, inoltre, era stato dedotto dal ricorrente in maniera del tutto generica.
Alla luce di tali circostanze, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso, confermando la sentenza di condanna di primo grado e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.