La vicenda ha avuto origine dalla
domanda proposta da un
condominio nei confronti dei proprietari di un appartamento sito nello stabile, al fine di ottenere l’accertamento dell’illegittimità degli interventi effettuati da questi ultimi sul
terrazzo e di ottenere così il ripristino della situazione iniziale, in quanto tali interventi erano stati eseguiti
in assenza di autorizzazione e quindi in violazione degli artt.
1102 e
1120 c.c. e del regolamento condominiale.
La domanda era stata rigettata in
primo grado, poiché, secondo il
giudice, non era stato dimostrato che l’intervento avesse alterato l’uso della cosa comune o che avesse impedito agli altri condomini di farne uso.
La
sentenza è stata, però, riformata in sede di
appello, dove è stata accertata l’
illegittimità delle opere realizzate, poiché ritenute incidenti su parti comuni dello stabile, ed i proprietari del terrazzo sono stati
condannati al ripristino dello stato dei luoghi.
I proprietari hanno così proposto
ricorso in Cassazione, la quale si è espressa con l’
ordinanza n. 4909/2020.
La Suprema Corte ha innanzitutto confermato il prevalente orientamento giurisprudenziale che considera il parapetto del balcone (dove erano state eseguite le opere nel caso concreto) come parte della facciata dello stabile, in ragione della sua prevalente funzione estetica.
Già in passato, la Cassazione aveva avuto modo di precisare che, benché i balconi non rientrino tra le parti comuni del condominio, così come elencate dall’art.
1117 c.c., tra questi beni comuni devono però ricomprendersi il rivestimento del parapetto e della soletta, nel caso in cui questi svolgano una funzione prevalentemente estetica per l’
edificio, divenendo in questo modo elementi decorativi ed essenziali della facciata.
Dunque, in sostanza, se ne può ricavare che i balconi non sono parti comuni, a meno che non abbiano una
prevalente funzione estetica. In quest’ultimo caso, se il
proprietario di un appartamento esegue opere sul proprio balcone facendo uso anche di beni comuni, è necessario che lo faccia rispettando i limiti imposti dall’art.
1102 c.c.
Per questo motivo, l’intervento dei proprietari, per essere legittimo, avrebbe almeno dovuto ottenere la preventiva autorizzazione da parte dell’assemblea condominiale.
La Suprema Corte ha fatto, inoltre, un altro richiamo alla giurisprudenza prevalente in tema di estetica degli edifici, che afferma che sono da considerare lesive del
decoro architettonico dell’edificio condominiale, e quindi vietate, tutte quelle modifiche che non solo ne alterino le linee architettoniche, ma anche quelle che in qualche modo abbiano dei riflessi negativi sul complessivo aspetto armonico dell’edificio, a prescindere dal suo pregio estetico.
La
valutazione di questi riflessi negativi, tuttavia,
spetta al giudice di merito e non può essere sindacata in sede di legittimità, dal momento che non è possibile attribuire valenza decisiva ad elementi oggettivi quali il grado di visibilità delle modifiche o la presenza di pregresse innovazioni non autorizzate. Per questi motivi, la Cassazione ha rigettato il ricorso.