Nel caso oggetto di giudizio della Corte, l'ex moglie aveva assillato l'ex marito con telefonate e sms aventi tutti ad oggetto il rapporto con i figli; nonostante le comunicazioni riguardassero gli interessi dei figli, l'uomo decideva di sporgere denuncia alle autorità competenti poichè riteneva di essere stato molestato dalle eccessive e martellanti comunicazioni ricevute.
In particolare, riferiva di aver ricevuto, per oltre un mese, telefonate continue ed sms disturbanti da parte dell’ex moglie, nonostante avesse anche cambiato più volte numero di telefono.
Il Tribunale, nel primo grado di giudizio, aveva ritenuto di dover condannare l’ex moglie comminandole la pena di € 300,00 di ammenda e condannandola, inoltre, al risarcimento del danno nei confronti della parte offesa.
Secondo il giudice, infatti, la frequenza e la continuità delle telefonate dimostravano come le stesse fossero state utilizzate non come un semplice mezzo di comunicazione ma come un mezzo di disturbo.
L’ex moglie, ritenendo la sentenza ingiusta, proponeva ricorso in Cassazione, rilevando come lo scopo delle telefonate non fosse stato quello di arrecare disturbo, bensì quello di cercare un contatto con l’ex marito nell’interesse dei figli.
La donna precisava di essersi trovata “in stato di necessità” dal momento che le telefonate e gli sms si erano resi necessari al fine di “ottenere un dialogo funzionale e necessario per il sostentamento (e l’educazione) dei figli”, poichè il padre era già stato condannato per il reato di violazione degli obblighi di assistenza famigliare, di cui all’art. 570 del c.p..
La Corte di Cassazione riteneva il ricorso presentato dall’ex moglie fondato, procedendo all’annullamento della sentenza di condanna resa dal Tribunale.
La Cassazione ricordava, in particolare, che “la disposizione di cui all’art. 660 del c.p. punisce la molestia commessa col mezzo del telefono, e quindi anche la molestia posta in essere attraverso l’invio di sms”, per mezzo dei quali “per petulanza o altro biasimevole motivo” venga recato “a taluno molestia o disturbo”.
Rilevava la Corte, tuttavia, che ai fini della sussistenza del reato è necessario che il comportamento sia caratterizzato della “petulanza”, vale a dire, “da quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone”.
Nel caso di specie, dunque, il reato non poteva dirsi configurato, dal momento che era stato accertato che “le ragioni dell’imputata a ricercare il contatto con il marito separato riguardavano problematiche con i figli e ragioni economiche connesse al mancato pagamento della somma versata in sede di separazione personale”.
Pertanto, “una volta riconosciuto che le telefonate e gli sms vertevano su questioni non futili e di rilevante interesse per i figli”, sarebbe apparso “illogico definirle petulanti e fonti di disturbo, come se fosse giustificabile il comportamento del genitore che per sottrarsi agli obblighi a suo carico (economici e di assistenza), rifiuti ogni colloquio con il coniuge separato”.
Secondo la Corte, quindi, nel comportamento posto in essere dall’ex moglie non era evidenziabile “un fine di petulanza, né tantomeno biasimevole motivo”, con la conseguenza che non si poteva ritenere che la stessa avesse commesso il reato di cui all’art. 660 del c.p..
Di conseguenza, la Corte di Cassazione riteneva di accogliere il ricorso proposto dalla donna, annullando la sentenza impugnata.