Nel caso esaminato dalla Corte, il Tribunale aveva condannato un determinato soggetto per il reato di molestie telefoniche, applicando, pertanto, la pena dell’ammenda di Euro 300,00 e condannandolo, altresì, al risarcimento del danno, quantificato in Euro 3.000,00.
In particolare, il Tribunale riteneva raggiunta la prova delle molestie, dal momento che la persona offesa aveva prodotto “i tabulati presso il gestore telefonico delle utenze interessate compiendo i relativi controlli investigativi e confermando che le chiamate provenivano da un'utenza utilizzata dall'imputato”.
Il condannato, ritenuta la sentenza ingiusta, impugnava la sentenza dinanzi la Corte di Cassazione, la quale, tuttavia, non riteneva le argomentazioni del medesimo convincenti, rigettando, dunque, il ricorso e confermando la sentenza di condanna resa dal Tribunale.
Nello specifico, la Corte di Cassazione rileva come “la motivazione dei provvedimento impugnato risulta congrua dal punto di vista della ricostruzione dei presupposti indispensabili per la configurazione della fattispecie di reato”, dal momento che risulta “provato processualmente che le molestie si concretizzavano attraverso l'effettuazione di numerose telefonate presso l'utenza del (…) marito della donna con cui il ricorrente aveva una relazione, alcune delle quali avvenivano in orario notturno”.
La Corte rilevava come tali circostanze fossero del tutto incontrovertibili, in quanto risultavano confermate dalle “risultanze dei tabulati telefonici trasmessi dai gestori telefonici interessati - sui quali riferiva il teste A. - e delle dichiarazioni della stessa persona offesa dei reato, la quale precisava che la maggior parte delle telefonate era stata effettuata in orario notturno, dopo le ore 3.30; il che rende irrilevante le deduzioni difensive secondo cui le telefonate erano avvenute mentre nell'abitazione dell'imputato erano presenti altri soggetti”.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, “in questa cornice processuale, il numero elevato e le modalità inequivocabilmente moleste con cui le chiamate telefoniche venivano effettuate (…) non consentono di ipotizzare la natura occasionale di tali contatti telefonici”.
Pertanto, tutto ciò consente “di ritenere provato - in linea con quanto affermato nella sentenza impugnata - che le molestie telefoniche poste in essere (…), per le connotazioni di petulanza che le caratterizzavano, erano idonee a configurare il reato contestato all'imputato ai sensi dell'art. 660 cod. pen., sotto il duplice profilo oggettivo e soggettivo”.
In proposito, la Corte ricorda, infatti, come la stessa Cassazione in diverse sue pronunce, abbia chiarito come “il reato di molestia di cui all'art. 660 cod. pen. non è necessariamente abituale, per cui può essere realizzato anche con una sola azione di disturbo o di molestia, purché ispirata da biasimevole motivo o avente il carattere della petulanza, che consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire sgradevolmente nella sfera privata di altri» (cfr. Sez. 1, n. 3578 dei 07/11/2013, Moresco, Rv. 258260)”.
In sostanza, il giudice del terzo grado di giudizio, ritenuto incontestabile, alla luce delle indagini effettuate nel corso del processo di primo grado, che il soggetto condannato avesse poste in essere le condotte moleste e petulanti, ritiene di dover aderire alle argomentazioni svolte dal Tribunale, il quale, del tutto correttamente, aveva condannato l’imputato per il reato di molestie, di cui all’art. 660 c.p.